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La legge di Lidia Poët

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La legge di Lidia Poët

“L’avvocheria è un ufficio esercitabile soltanto da maschi, e nel quale non devono punto immischiarsi le femmine”.

Serie originale italiana di Netflix, in streaming dal 15 febbraio, La legge di Lidia Poët è la terza serie più vista tra quelle non in lingua inglese, non solo in Italia ma in un campione di ben 55 nazioni facendo, al di là di tutto, anche una bella pubblicità a Torino, dove è stata interamente girata.La serie racconta appunto la storia di Lidia Poët, prima avvocata del Regno d’Italia, e delle sue peripezie per poter esercitare la professione.

Ormai un po’ mi conoscete, sapete che le narrazioni, visive o letterarie che siano, ambientate nel passato mi piacciono un sacco, soprattutto se hanno a che fare con personaggi veramente esistiti.

Se poi questi personaggi sono donne, e in una qualche maniera sono state pioniere, nel loro campo, della lotta per l’emancipazione femminile, allora l’aggancio è definitivo. Dopo la prima donna (americana) a fare il giro del mondo in bicicletta e la prima donna architetto della Storia (romana), stavolta sono stata incuriosita dalla prima avvocata italiana, precisamente di Pinerolo, nel Torinese.

La prima donna iscritta all’Albo degli avvocati

Lidia Poët nasce nel 1855 in una famiglia agiata, il padre è avvocato e il fratello ne segue le orme. Studia da maestra, imparando l’inglese, il francese e il tedesco ma poi, a 23 anni, si iscrive a Legge e nel 1881 è tra le prime donne a laurearsi in Giurisprudenza, con una tesi sulla condizione della donna nella società. In particolare la sua tesi verte sulla questione del diritto di voto alle donne. Una battaglia che allora stava iniziando a essere combattuta, soprattutto dalle Suffragette inglesi.

Lidia Poët fa due anni di praticantato presso lo studio di un senatore e poi chiede e ottiene l’iscrizione all’Albo degli avvocati e procuratori. La richiesta viene accolta  ma, poco dopo, a causa delle polemiche suscitate dall’avvenimento, il Procuratore Generale impugna l’iscrizione all’Albo e la Corte di Appello accoglie il ricorso e revoca l’iscrizione.

Nella serie Netflix, in questa scena il Giudice della Corte riporta fedelmente le motivazioni addotte all’epoca. Queste spaziavano dalla “sconvenienza” per una donna di parlare o trovarsi in situazioni disdicevoli, al fatto che il giudice potesse essere influenzato dall’eventuale leggiadria dell’avvocata, fino alla trita e ritrita giustificazione basata sulla inegualità naturale (cit.) tra uomini e donne. Qualunque cosa questo volesse significare.

Il Corriere della Sera pubblicò il 4 dicembre 1883 una intervista a tutta pagina a Lidia, proprio il giorno dopo l’emissione della sentenza, nella quale il giornalista tentava di confutare insieme a lei le assurde motivazioni.

Mentre Lidia Poët preparava il ricorso in Cassazione e anche dopo l’ulteriore diniego, continuò a lavorare di fatto come avvocata, presso lo studio del fratello. Fu quindi parte attiva nelle battaglie per il diritto di voto alle donne e in generale contro le discriminazioni sociali, e continuò ad esserlo per tutta la vita. Ci volle la fine della Grande Guerra perché fosse finalmente concesso a Lidia di iscriversi all’Albo, cosa che infatti successe nel 1920, quando Lidia Poët aveva 65 anni.

La legge di Lidia Poët e l’infedeltà storica

Pur ambientando scenograficamente molto bene la Torino di fine ‘800 nella quale si muove Lidia – indossando costumi meravigliosi – la serie non è una ricostruzione storica degli avvenimenti.

Anzi devo dire durante tutto il primo episodio, a partire proprio dalla scena di apertura che non svelerò, per continuare con il modo di parlare sia di Lidia che degli altri personaggi, sono stata infastidita dalla non aderenza storica. Poco dopo però ho capito che è una precisa scelta stilistica. La legge di Lidia Poët non è la biografia dell’avvocata, non vuole ripercorrerne le gesta e le battaglie. Queste rimangono sullo sfondo, plasmano il carattere e i movimenti di Lidia, ma non ne vediamo lo sviluppo nel dettaglio.

Lidia Poët sullo schermo richiama più Enola Holmes, la sorella di Sherlock nell’omonimo film (anche quello visibile su Netflix). Si trova infatti ad assistere delle persone ingiustamente accusate dei crimini più vari e lei, insieme a Jacopo – fratello della cognata e giornalista di quella che successivamente diventerà La Stampa – indaga e tende trappole per scoprire il vero colpevole.

Insomma si comporta più come un’investigatrice che come un avvocato. Anche perché a lei è precluso l’accesso in aula e deve sempre andarci il fratello Enrico Poët.

Le linee verticali della serie (ovvero i casi di puntata) sono abbastanza semplici e autoconclusive. Ma proprio come nelle investigazioni di Sherlock Holmes, serve quell’intuizione particolare, quell’attenzione al dettaglio sfuggito ai più che invece Lidia Poët nota. Questo ci fa capire la contemporaneità di pensiero della nostra protagonista, raffrontata alle dinamiche investigative “classiche” dei suoi detrattori.

La linea orizzontale, d’altra parte, si biforca  ed è molto interessante perché porta al cuore della storia di Lidia. Da una parte i suoi incastri relazionali con il suo amante/amico Andrea e con Jacopo. Dall’altra la relazione con il fratello Enrico che, pur incarnando lo Status Quo Umbertino al 100%, in realtà si rende conto della competenza della sorella e della ingiustizia che sta subendo. Arriva perciò a stare burberamente dalla sua parte e a lottare con lei per i suoi diritti.

Parolacce che nell’800 neanche esistevano ma…

Io credo che molte delle parolacce che sentiamo in bocca a Lidia Poët o ai suoi amici non esistessero nemmeno alla fine dell’Ottocento. Così come immagino che donne libere e sessualmente attive ci fossero, ovviamente, ma non in maniera così sfacciatamente Millennial.

Ecco, a me la dinamica narrativa de La legge di Lidia Poët, con le dovute proporzioni per carità, mi ha ricordato un po’ il gioco che fece Baz Luhrmann con quel capolavoro di Moulin Rouge, in cui l’ambientazione bohémien era accompagnata dalla colonna sonora pazzescamente contemporanea, rendendo il tutto anacronistico e stramoderno.

Ne La legge di Lidia Poët il personaggio portato sullo schermo dalla brava Matilda De Angelis, ha dei comportamenti poco consoni a una giovane donna di fine ‘800 ma, proprio perché invece sono molto comuni alle sue coetanee del 2023, ce la rendono più vicina e accattivante. E anche le sue rivendicazioni sociali e politiche riescono ad essere percepite come più concrete.

Certo, questo ha come contraltare la licenza poetica rispetto alla veridicità storica. Se si approccia La legge di Lidia Poët come una serie documentaristica sugli usi e costumi d’epoca si rimane delusi e anche un po’ infastiditi.

Se invece la si contestualizza come un legal drama leggero e in costume, succede, o almeno è successo a me, che ci si appassiona alle vicende di Lidia Poët che, con le sue battaglie per il riconoscimento di giusti diritti, ha permesso a molte altre donne di seguire la sua strada. Credo infatti che la mia prossima lettura sarà Lidia e le altre di Chiara Viale, che racconta come le battaglie per l’uguaglianza di genere hanno ancora molta strada da fare. 

Fa ancora freddo e viene voglia di cucinare piatti corposi e confortanti. Per questo vi passo la ricetta di un caposaldo della cucina piemontese: il brasato al Barolo, di cui si narra fosse ghiotto anche il piemontese DOC,  Camillo Benso di Cavour.

Brasato al Barolo

1,200 kg di cappello del prete, legato500 ml di vino rosso Barolo Barbera, Nebbiolo, Barbaresco1 cipolla bianca grande1 costa sedano2 carote grandi2 foglie allorochiodi di garofanoolio d’oliva25 gr burrosale1 cucchiaio di maizena o farina di riso per addensare

Come prima cosa, idealmente la sera prima ma possono bastare anche un paio d’ore, mettete la carne in un recipiente che la contenga in misura. Aggiungete il Barolo, la cipolla, il sedano e le carote, tagliate a pezzettini. Coprite e lasciate marinare in frigo.

Quando è il momento di cuocere, togliete la carne dalla marinata, tenendo quest’ultima da parte, e asciugatela bene con la carta da cucina.Fate scaldare il burro e due cucchiai di olio EVO nella casseruola che userete per la cottura, dopodiché rosolatevi per bene la carne, da tutti i lati, per circa 5 minuti totali.

Levate la carne dalla casseruola e, recuperate le verdure dalla marinata, mettetele nella pentola e fatele rosolare.  A questo punto, rimettete la carne nella casseruola e giratela bene nel condimento di verdure. Aggiungete il vino della marinata, una foglia di alloro e portate a ebollizione, scoperto, così da far evaporare l’alcool.

Una volta evaporato l’alcol abbassate la fiamma al minimo, coprite con il coperchio e cuocete per circa 3 ore e mezza. A metà cottura aggiungete il sale e, di tanto in tanto, girate la carne.La carne sarà cotta quando potrete facilmente infilzarla con una forchetta.Spegnete e fate raffreddare completamente, condizione essenziale per poterla affettare.

Quando sarà il momento di servirla se, come me, la preferite calda, scaldate per bene il fondo di cottura, che avrete addensato con un poco di maizena, e servitelo con un purè di patate (quello vero, mi raccomando, non la versione in bustina degli astronauti!).

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