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“L’artista della fuga” di Jonathan Freedland – Come fuggire da Auschwitz

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“L’artista della fuga” di Jonathan Freedland – Come fuggire da Auschwitz

Tuttavia, non ne avrei scritto se non avessi letto il libro di Jonathan Freedland. Perché?Semplicemente perché apre squarci inediti su quella vicenda e fa riemergere dall’oscurità dell’oblio Walter Rosemberg alias Rudolf Vrba, L’artista della fuga.

Un ragazzo sveglio ad Auschwitz

Walter Rosemberg era nato a Trnava in Slovacchia, 50 chilometri dalla capitale Bratislava. La Slovacchia fu uno degli stati più collaborativi coi nazisti e sin dal 1939 emanò le leggi razziali che segregavano gli ebrei. Molti cercarono di lasciare il Paese per altri stati come la Gran Bretagna, e anche l’adolescente Walter, già espulso dalla scuola pubblica, ben presto iniziò ad accarezzare l’idea della fuga. Walter era un ragazzo sveglio: imparò da solo il tedesco e inizò lo studio del russo quasi presagisse l’importanza di conoscere proprio quelle lingue.

Così, quando nel febbraio 1942 ricevette la lettera governativa che l’invitava “a presentarsi in tal luogo e in tal ora, portando con sé un bagaglio di non più 25 kg di peso e senza oro” come se dovesse recarsi in un luogo ameno e confortevole, Walter comprese subito che non c’era tempo da perdere. Progettò di arruolarsi nell’esercito cecoslovacco in Inghilterra. Con l’appoggio della madre organizzò un piano di fuga che passava per l’Ungheria e, in una notte del marzo 1942, sotto la neve lasciò la sua terra a bordo di un taxi complice.

L’artista della fuga

La prima fuga di Walter finì come potete immaginare. Dopo aver passato il confine venne accolto da anti-nazisti clandestini ma questi non riuscirono a fargli avere i documenti falsi necessari per poter proseguire il viaggio. Dopo dieci giorni di vana attesa non poté che far ritorno a casa. Ma qui accadde ciò da cui Walter tentava di sottrarsi.A 17 anni si ritrovò prima nel campo di transito di Nováky e da qui nel nascente campo di Auschwitz, allora occupato soprattutto da dissidenti politici e criminali polacchi con  triangoli verdi sul petto.

Fuggire, fuggire, fuggire

Gli orrori a cui Walter assistette a partire dal viaggio verso Auschwitz e nei due anni di permanenza nel campo di Auschwitz prima e Birkenau poi, sono quelli descritti anche da altri sopravvissuti. Ma lo sguardo di Walter riusciva a vedere oltre. Dalla sua aveva certo il vigore fisico della giovane età ma anche l’indomita sete di vivere che non l’abbandonò mai. Osservava, memorizzava, faceva tesoro delle parole di chi c’era prima di lui, faceva esperienza dei tentativi di fuga falliti. Conosceva il duro lavoro alla Buna, la fame e il tifo, l’orrore infinito della rampa, l’opportunismo come legge di sopravvivenza, l’inedia dei Muselmänner che li rendeva dei morti viventi.

Ma nulla di tutto questo l’allontanò dalla vita. Al contrario, crebbe sempre più in lui la volontà di fuggire. Di fronte ai fuggiaschi catturati e impiccati nel campo a mo’ d’esempio non desistette: cercò di capire perché la loro fuga era fallita. Due erano le armi a sua disposizione per poter progettare una vera fuga: memoria di ferro e relazioni. A questo s’aggiunse la variabile imponderabile che potremo chiamare destino, o fortuna, o…

Walter memorizzò la disposizione delle baracche, la logistica del campo, il territorio circostante. Osservò e memorizzò come i nazisti reagivano alla scoperta di un’evasione, come organizzavano la ricerca, ne scoprì il punto debole: fuggire significava morire eppure doveva pur esserci una falla nell’organizzazione apparentemente impeccabile dei nazisti. Lavorava nel settore chiamato Kanada dove venivano smistati e ammassati i beni degli ebrei che arrivavano al campo. Sembrava impensabile che in un simile inferno potesse esistere un vero e proprio angolo di paradiso: cibo in abbondanza, vestiti e scarpe vere, denaro e oro che andavano ad alimentare l’economia di guerra della Germania.

A Birkenau, o Auschwitz II, entrò a far parte della rete di resistenza clandestina creatasi tra gli internati con lo scopo di mutua assistenza e di ricoprire ruoli che li mettevano al riparo da fatica e malattie. Ben pochi fuori e dentro il campo sapevano dell’esistenza di una simile organizzazione basata sulla corruzione dei nazisti e il conseguente ricatto. Ma per Walter questa rete aveva un limite: non si preoccupava degli ebrei che erano fuori dal campo. Non agiva per avvisarli di cosa significava essere deportati ad Auschwitz. E l’unico modo per farlo era fuggire e testimoniare l’orrore.

L’incontro con Alfred Wetzler

Ora Walter aveva maggiore libertà di movimento all’interno del campo, e questo gli permise di studiare bene la logistica e scegliere il punto ottimale da cui iniziare la fuga. Quindi condivise il progetto con un altro internato, Alfred Wetzler, suo compaesano di Trnava, di cinque anni più grande di lui.

Anche Wetzler occupava uno strano ruolo, quello di segretario del settore Obitorio. Mentre assisteva alla costruzione dei nuovi crematori, Walter incontrò un ufficiale dell’Armata Rossa che gli dette lezioni di russo e l’istruì sull’arte della fuga. Da Yup imparò le due regole d’oro: usare uno stratagemma per sviare i cani dei nazisti e, soprattutto, non condividere con nessuno i dettagli del piano di fuga. A parte Fred nessun altro seppe cosa avrebbero fatto una volta usciti dal perimetro del campo, sempre che ci fossero riusciti.

Alle 2 del pomeriggio del 7 aprile 1944 Walter e Fred attuarono il piano. Per tre infiniti giorni l’odore nauseante della machorka (la pianta da cui si estrae il tabacco), consigliato da Yup tenne lontani i cani dal loro nascondiglio.

I protocolli di Auschwitz

Walter era vissuto e aveva lavorato nel campo principale, a Birkenau e alla Buna: Auschwitz I, II e III. Aveva lavorato nelle cave di ghiaia, nella fabbrica DAW e nel Kanada. Aveva assistito da vicino al processo di selezione che prevedeva l’uccisione organizzata di centinaia di migliaia di persone. Conosceva bene la disposizione del campo e riteneva di avere una buona idea di quanti fossero entrati in treno ad Auschwitz e quanti fossero usciti dai crematori. Tutto questo l’aveva mandato a memoria.

Nel tempo, osservando l’inconsapevolezza degli ebrei che scendevano dai treni, aveva maturato la convinzione che l’unico modo per sconfiggere l’orrore nazista era portare a conoscenza del mondo esterno ciò che di tremendo s’andava consumando nei campi. Questa era diventata la missione della sua fuga. Se gli ebrei fuori dai campi avessero saputo, avrebbero quanto meno potuto opporre resistenza alla deportazione. E si sarebbero salvati. Forse.

I primi ebrei che riuscirono a fuggire con successo da Auschwitz

Dopo la loro incredibile fuga, Walter e Fred riuscirono ad arrivare a Bratislava, non senza peripezie, e furono accolti dal Consiglio ebraico della città. Il presidente del Consiglio, Krasnansky, sentì la loro testimonianza, la trascrisse in un rapporto noto poi come Rapporto Vrba-Welzer, o Protocolli di Auschwitz.

La prima reazione di Krasnansky fu esattamente la stessa della maggior parte di coloro che lessero il rapporto: incredulità, sospetto, troppo orrore per crederci. Non era pensabile che i tedeschi potessero anche solo concepire un piano simile. Si trattava dello stesso atteggiamento che Walter aveva rilevato negli ebrei che giungevano alla rampa…Ci volle tempo, troppo tempo affinché il rapporto giungesse tra le mani “giuste” e agisse. La storia ha già dimostrato che altri sapevano e non vollero agire.

Walter accettò di cambiare identità in un innocuo Rudolf Vrba, conservando questo nuovo nome per tutta la restante vita. Non smise mai di battersi perché gli altri venissero a conoscenza di ciò che lui aveva vissuto, nella speranza che altri ebrei si salvassero. Nella speranza che ciò non si ripetesse più. La storia ha dimostrato che questa speranza è andata delusa. Lui stesso fu dimenticato. Jonathan Freedland ha intervistato le due moglie di Vrba che gli hanno messo a disposizione i documenti che gli sono serviti a scrivere il libro. Resta il fatto che ai più la fuga di Walter dall’inferno di Auschwitz pareva impossibile eppure…

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