“L'amava follemente poi l'ha ammazzata. Basta con le parole tossiche sulla violenza sulle donne”
Parla Silvia Levenson, artista che con la figlia Natalia Saurin ha creato il progetto “Il luogo più pericoloso”, visibile dal 25 novembre in più città: “Nella comunicazione su questi delitti le vittime diventano colpevoli e il linguaggio è fondamentale”


“La amava follemente”. Poi l’ha ammazzata. “Era buono”. Poi l’ha uccisa. “È stato un raptus”. E l’ha massacrata dopo mesi di minacce e di stalking. Quante volte abbiamo letto o sentito questo ritornello menzognero e ipocrita dopo un femminicidio? “Rimaniamo sempre sorprese e basite quando leggiamo ‘era un gigante buono’, ‘era un bravo genitore’, ‘era un lavoratore’, ‘lei lo provocava’ ”, rimarca Silvia Levenson: lei è un’artista di origini argentine che con la figlia artista Natalia Saurin ha in corso un progetto in tre atti dal titolo “Il luogo più pericoloso”. Consiste in piatti da cucina mandati in frantumi da donne (e da uomini) con un compendio di quelle frasi nauseanti. Silvia Levenson e Natalia Saurin presentano il terzo atto in un video girato in un laboratorio che hanno curato e diretto nei Chiostri di Santa Caterina a Finalborgo, in provincia di Savona. Per le cure di Antonella Mazza, dal pomeriggio di giovedì 25 novembre il filmato viene inserito nel palinsesto dei maxi impianti “Urban Vision” (clicca qui) a Roma e Milano in una campagna contro la violenza sulle donne. Con il sostegno fondamentale del Comune milanese, “da un’idea di Gianluca De Marchi con il Gruppo 25 Novembre e l’associazione Crisi Come Opportunità”, fa sapere il comunicato stampa.
L’azione artistica ha avuto il suo esordio nel 2019 a Firenze, a cura del Museo del ‘900 e del direttore Sergio Risaliti. L’anno scorso i piatti dovevano essere esposti nel cortile di Palazzo Reale a Milano ma, per la pandemia, Silvia Levenson e Natalia Saurin hanno fatto un’azione in Piazza Duomo. Adesso il video viene proiettato in varie città come Torino, Verona, Biella, Genova, Salerno, Potenza oltre che nel capoluogo lombardo e nella capitale.
I femminicidi, un tragico elenco: clicca qui
Levenson, il luogo più pericoloso per una donna è la casa? Le donne uccise in Italia in casi di femminicidi alla mattina del 24 novembre risultano, salvo errori e aggiornamenti, ben 109. Un numero folle che peraltro non dice delle violenze quotidiane, delle minacce, dell’inferno dello stalking.
Infatti. Un rapporto dell’Onu del 2018 concludeva che la maggior parte dei crimini contro le donne nel mondo avveniva nella casa o dove sono coinvolti familiari, fidanzati o ex fidanzati, mariti o ex mariti: la stima di quell’anno era di 50mila donne ammazzate. Ed è la punta dell’iceberg: ci sono le violenze non denunciate, le famiglie disfatte, i bambini che non trovano più pace.
Come valuta il modo in cui ne parlano molti media e le persone?
Noi rimaniamo sempre sorprese e basite dal modo in cui i giornali riportano le notizie: l’omicida era un gigante buono, un bravo genitore, un lavoratore, lei era ubriaca, lei lo provocava.
Poco tempo fa la giornalista Barbara Palomelli, in tv, su questo tema ha invitato a chiedersi se le donne esasperano i loro uomini. In seguito ha corretto il tiro e chiesto scusa ma ha espresso quel pensiero davanti alle telecamere.
I media hanno un potere molto grande. Quando la Palombelli ha detto di pensare se da parte delle donne c’è provocazione, a me e a mia figlia Natalia sconvolge sempre vedere che questo sia l’unico delitto dove le vittime diventano colpevoli. “Perché non se n’è andata via prima?” “Perché voi donne vi trovate in una situazione senza pensarci prima”? Quando le donne reagiscono vengono ammazzate.
Lei e sua figlia lavorate sul linguaggio?
In questo caso sì. Le parole sono molto importanti, servono a perpetuare o a trasmettere valori, sono anche fatti. In Argentina, da dove vengo, in tante situazioni si è iniziato con le parole, banalizzando la reazione della persona contro la violenze.
In una video intervista su Tiscali Cultura a Claudia Sarritzu (clicca qui per vederla) intorno al ventesimo minuto Laura Boldrini ha spiegato quanto sia necessario cambiare il linguaggio anche in istituti come la Camera dove era presidente dell’Aula. Concorda?
È vero. Bisogna dire che lo spagnolo si presta molto di più dell’italiano alle modifiche. Qui per il plurale si usa sempre il maschile, in Argentina adesso si cerca di adottare un linguaggio neutro per cui non si dice più “todos” né “todas” ma “todes”. La discussione sul linguaggio è importantissima.
Perché?
Come donne siamo abituate a non essere chiamate così né visibili. Se sono medico o deputato non mi si riconosce come donna o si pensa che le donne non possano fare quei lavori.

Un’azione artistica può servire?
Siamo artiste visive e portiamo avanti la nostra ricerca. L’arte difficilmente potrà cambiare il mondo ma può aiutare la realtà da diversi punti di vista ed è la sua funzione anche verso chi soffre la violenza ogni giorno. È un modo per non nascondere la realtà. Nel caso della violenza contro le donne è un dire “basta” e la voce è non solo delle donne, è di tutta la società.
Anche di noi uomini?
Sicuramente dobbiamo cambiare una società patriarcale. Si trasmette che le donne sono vittime di un raptus di un uomo andato in crisi e dalla reazione eccessiva. Invece un uomo fa violenza perché ha un problema di poter controllare l’altra, di non accettare l’altro. Per questo ci concentriamo sulle parole: non basta dire non sono razzista, bisogna dire “sono antirazzista”; per un uomo non basta dire “non sono violento”, è necessario dire “sono contro violenza sulle donne”.
Inasprire le pene non basterebbe come deterrente. Spesso questi assassini si uccidono. Per vigliaccheria, ha detto un magistrato. Così non rispondono neppure del loro crimine, nemmeno quando uccidono i propri figli. Ai più, se non a tutti, la pena detentiva sembra non interessare affatto.
Non sono avvocata o giudice, ho la visione di una artista cittadina. Ma ne parlo con associazioni. Anche se vengono inasprite le pene bisogna dare ai giudici gli strumenti per applicare le leggi. Tante volte a questi assassini viene ridotta la pena perché ritenuti vittima di raptus. Penso che l’unica soluzione sia un cambiamento mirato verso le nuove generazioni: bisogna cambiare l’educazione e i paradigmi della comunicazione, fin dall’infanzia, dalla scuola. È una responsabilità sociale, non delle donne.
Ma l’educazione della famiglia? Poniamo che a un figlio maschio venga detto dai genitori, madre inclusa, sempre “sì” a ogni sua richiesta e volontà, qualunque essa sia: da adulto saprà accettare un “no” da una donna?
L’educazione dei figli è fondamentale, nessuno dice che le donne sono sagge e gli uomini violenti in blocco. Il problema è il messaggio trasmesso ai figli. Sono figlia di una donna che veniva picchiata, quando avevo dai 10 ai 15 anni in Argentina. Non capivo mia mamma, ci sono voluti tanti anni per capire che non sapeva come gestire la situazione, che la colpa non era sua. Da piccola vedevo tensioni sfociare nella violenza e avevo l’idea che succedeva in tutta l’America Latina, che è molto maschilista. Durante la dittatura sono emigrata in Italia e ho capito che la violenza contro le donne è un fenomeno sociale molto più esteso, non dipende solo dai paesi sottosviluppati. Ho anche capito che non avrei voluto mai vivere una situazione simile. Infatti mia figlia Natalia e io usiamo l’arte per denunciare e penso che sia molto positivo.
Per il sito di Silvia Levenson clicca qui, per il sito di Natalia Saurin clicca qui
Come mettete in opera la rottura dei piatti?
Alla fine del primo atto a Firenze li abbiamo poggiati per terra; nel secondo atto a Milano l’anno scorso con il lockdown li abbiamo fatti fotografare; in questo terzo atto li rompiamo con un atto simbolico e liberatorio per rompere questa comunicazione tossica.