Oliviero Toscani denuda la nostra ipocrisia: "Pacifisti? In realtà siamo solo preoccupati che tutto costerà di più"
Intervista al fotografo per i suoi 80 anni: “Non ho mai fatto pubblicità, ho parlato di integrazione, Aids, diversità, violenza … Ma questo disturbava una certa sinistra”. E sull’attacco russo all’Ucraina: “Siamo passivi e non andiamo in piazza”

La guerra della Russia in Ucraina? “Stiamo ad ascoltare passivi e non andiamo in piazza: non dico un movimento pacifista ma civile. Accettiamo tutto, pensiamo la guerra sia lontana, invece la democrazia deve essere vicina, la democrazia non è lontana. La nostra preoccupazione è solo che costerà tutto di più. Se è così siamo fottuti”. Lo esclama con la sua veemenza al telefono, Oliviero Toscani, l’autore delle immagini che non possono lasciare e non hanno lasciato indifferenti, il 28 febbraio compie 80 anni. Nell’intervista a Tiscali Cultura parla del suo lavoro di persone, perché sono, anzi siamo, il cuore della sua passione. E a ridosso della pubblicazione, sul conflitto europeo appena esploso alla conversazione già fatta aggiunge il suo commento. E osserva: “Sono nato durante la guerra e finisco con la guerra ed è vergognoso. Credevo che dopo ottanta anni avessimo imparato qualcosa”.
Milanese, il fotografo vive a Cecina nel pisano con la moglie Kirsti. A prima vista potrebbe sembrare che lo scandalo è il suo mestiere: ha fotografato una modella vestita da suora che bacia un modello vestito da sacerdote, ha ritratto una donna anoressica nuda, ha inquadrato dei cuori contro il razzismo, coppie omosex quando nessuno le avrebbe immaginate in foto giganti per le strade. Prendetela come ipotesi: il mestiere di Toscani non è lo scandalo quanto ritrarre persone reali, in carne e ossa, senza nessun pregiudizio, smontare ipocrisie: certo gli piace far rumore, cavalca il sistema mediatico e battaglia con media, ritiene di avere mezzo mondo contro, tanto meno si veste di modestia.
Per la Nave di Teseo, dove è editor, pubblica ora l’autobiografia Ne ho fatte di tutti i colori. Vita e fortuna di un situazionista (256 pp., ill., 18 euro) con un rimando colto, nel titolo, al movimento artistico dei situazionisti. A 80 anni, mentre programma il prossimo impegno, descrive il suo lavoro con il linguaggio colorito che lo contraddistingue e che a tanti toscani (intesi come gli abitanti della regione, perdonate il facile gioco di parole) suona familiare.
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Toscani, fa sempre progetti? Al Corriere della Sera ha parlato di un lavoro in corso con Marina Abramovic. A 80 anni si può partire da tanti lavori in programma, giusto?
Tanti lavori, mah … Ne faccio uno dopo l’altro come prima. Continuo a lavorare. A 80 anni tutti si interessano di me, quando ne avevo 50 nessuno mi cagava.
Riconoscerà che la sua opera ha inciso parecchio sul nostro costume e sul nostro modo di guardare.
Sì, sì … È stato molto faticoso perché non tutti l’hanno capito, ho avuto critiche incredibili.
Vengono in mente alcune immagini che sono rimaste impresse. Per esempio i tre cuori su cui scrisse “white black yellow”. Oppure le sue campagne per la Benetton che includevano etnie diverse: oggi nella moda lo fanno tutti, allora lei era uno dei primi al mondo? O è stato il primo?
Il primo, ne sono sicuro.
Che reazioni suscitò? Anche attacchi e critiche?
Sì, ebbi tante critiche, soprattutto da quelli che si ritengono più intelligenti. Tante arrivarono dalla sinistra, da intellettuali. Di quelle robe potevano parlare solo loro, io ero uno che doveva fare pubblicità. Ma non ho mai fatto pubblicità, non ho lavorato per un’agenzia pubblicitaria, non ho mai seguito le regole della pubblicità. Non vendevo i maglioni, mai detto che un maglione è bello. Ho parlato di problemi che mi interessavano: integrazione, Aids, diversità, violenza … Ma tutto questo dava fastidio. Sa a chi?
A chi?
Soprattutto a una certa sinistra.
Come mai, secondo lei?
Perché loro hanno il monopolio di quei temi.
Non a tutta la sinistra però.
No, a una certa sinistra, quella alla quale per esempio Pasolini dava fastidio perché omossessuale. I cattocomunisti, borghesi di sinistra.
Ma tanti, di sinistra, rimasero colpiti.
Ma tantissimi ne erano disturbatissimi.

Lei ha toccato un altro tasto delicato con una foto terribile, nel senso di difficile da guardare con una ragazza seduta, nuda, anoressica. Ha reso manifesto che c’è un problema sociale serio.
Anche quell’immagine ... quante critiche ha ricevuto. Per esempio dalla signora Giovanna Melandri, che non è di destra.
Nella moda ora le aziende stanno cambiando criteri però le modelle magrissime che diventano un esempio per le ragazze è un problema serio.
In quel momento era così. Mi dava un fastidio tremendo. E ho toccato un tasto che era la cosa più ovvia lavorando nel mondo della moda.
Lei ha anticipato i tempi su un altro fronte: coppie omosex o etnicamente miste. Adesso è normale vederle nelle foto, allora no. Perché iniziò?
Io sono testimone del mio tempo. C’erano le coppie omosex, soprattutto nel mondo della moda, e le posso dire che ci sono anche nello sport ma non lo dicono ancora. Tutto questo esiste. Ma se fai vedere le cose più banali dai fastidio a una certa società. Non ho inventato niente, ho solamente capito che bisognava rendersi conto che quelle cose esistevano.
Non avrà inventato però ha messo davanti agli occhi di un vasto pubblico quanto succedeva.
Non mi dica che non si era accorto che c’erano coppie omosex.
Sì, ma non si vedevano rappresentate.
Non se ne parlava. Ho fatto anche un’altra cosa, molto semplice. Mio padre faceva il reporter e io vengo dal reportage, come educazione. Ho capito che se fai il reporter pubblichi i tuoi servizi solamente sul giornale per cui lavori, mentre usando i media della pubblicità potevo avere la stessa foto lo stesso giorno su tutti i giornali del mondo. Non ho fatto altro che una trasposizione. Ho capito come utilizzare i media.
Lei ha lavorato e lavora per la pubblicità, quindi su commissione. Facciamo un paragone, forse dirà che è esagerato: anche Tiziano lavorava su commissione.
Tutti i grandi artisti hanno lavorato su commissione.
Appunto. Anche Giotto dipingeva ad Assisi o agli Scrovegni su commissione. Perché oggi viene visto spesso come un problema?
Lei dice una cosa che ho sempre detto. I famosi reporter del cazzo, quelli che io chiamavo “quelli della settimana santa in Sicilia”, dicevano che l’unica fotografia è il reportage. Ho capito dagli anni ‘60 che quella menata alla Cartier Bresson era finita. A che serviva?
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Perché secondo lei c’è spesso astio o ostilità verso la pubblicità di moda?
È una mentalità. Per i colleghi io ero un fotografo del cazzo mentre loro erano quelli veri. Anche i giornalisti, il mondo, hanno questa mentalità.
Perché? Un tempo era nomale, per un artista, avere un committente.
Mediamente chi fa pubblicità è palloso. Se fai una cosa seria diventa un problema in un’area poco seria. Se lei dice qualcosa di serio da comico la guardano strano. Non si può lavorare senza committente.
Quindi non dovrebbe essere normale?
E lo viene a raccontare a me? Dovrebbe ma non lo è. Ho dovuto combattere per tutta la vita su questa menata. Io dovevo fare le cagate perché la pubblicità fa le cagate. Invece ti criticano se fai le cose serie. Le critiche dei benpensanti sono incredibili. Ma ci sono anche gli intelligenti.
Quale sarebbe un tema che riterrebbe urgente affrontare oggi?
In questo momento non mi interessa la pubblicità perché è diventata una ricerca di mercato, di marketing, di prezzi e sconti, e non gliene frega niente di parlare di cose serie, è troppo complicato. Ci sono i media, i social che sono totalmente dissociali, dissociati: è un momento molto problematico per la comunicazione. Non a caso non succede niente di veramente interessante.
Lei ha citato i social dove i più pubblicano foto di sé stessi. Lei ha fatto un’altra operazione: ha fotografato da decenni, oltre a star, una marea di gente presa per strada, non modelle e modelli.
Sì. Con “La razza umana” ho fotografato 80mila persone in giro per il mondo.
Perché l’ha fatto e cosa le ha insegnato, se le ha insegnato qualcosa, questa esperienza?
È una ricerca che mi serve per guardare la gente negli occhi. Sa, fare il fotografo non è scattare fotografie, il fotografo è uno psicanalista sociale. Io sono un testimone del mio tempo che analizza gli eventi del mio tempo. Questo significa capire la gente perché le cose vengono fatte dalla gente, dalla società. Soprattutto ho voluto tornare a una fotografia senza quei virtuosismi di chi fa le “belle fotografie”, che non vuol dire niente. L’immagine deve avere un significato socio-politico, se non lo ha non serve.
Però le sue foto tecnicamente funzionano: pensiamo agli sguardi delle 80mila persone del ciclo della “razza umana”.
Ci vuole una supertecnica per eliminare la tecnica banale di tutti i fotografi che pensano di essere bravi.
Oggi come le sembra stia la fotografia?
È importantissima, viviamo di immagine. Dall’altra parte il mestiere del fotografo all’antica non esiste più, lo studio o il reporter come una volta è finito. Più del 90% di ciò che conosciamo oggi lo conosciamo perché lo abbiamo visto in foto. Possiamo vivere senza quadri, senza arte, perché ormai è roba da collezionisti per gente ricca, non ha più il significato di una volta: l’arte dovrebbe essere gratuita. Lo è la fotografia: uno la vede e non deve pagar niente, l’immagine è la realtà di oggi. Del resto la Gioconda è stata vista più in modo realistico o attraverso la cartolina? Tutto è così. La fotografia è sempre originale in un certo senso, non come il pezzo unico dell’arte. L’immagine deriva sempre dall’originale.
Le sue foto comunque colpiscono.
Ma tanta gente ha avuto una reazione contraria, davano fastidio e soprattutto nel mondo della comunicazione. Ho fatto anche i giornali, sono stato dietro all’editoria, non mi interessava solo la fotografia: il fotografo moderno deve avere a che fare con la comunicazione, non solo con l’estetica dell’immagine. Ho ricevuto lettere di insulti, di tutto. Quando ho usato ultimamente fotografie di immigrati su Repubblica e sul Corriere alcuni hanno scritto all’Afi (l’Archivio fotografico italiano, ndr) di buttarmi fuori.
Erano scatti efficaci.
Faccio fotografia per le persone che guardano, non per i colleghi.