"Dal Ddl Zan ai generi fluidi, la pubblicità di moda incide nei costumi"

Dalle modelle che non solo più magrissime alla filiera che dà lavoro, in questa intervista l'esperta di moda e cultura visiva Maria Luisa Frisa spiega come e perché spot e foto hanno effetti sul nostro modo di vedere la vita sociale

La pubblicità della moda incide nella mentalità di noi cittadini? La domanda scaturisce da uno spot in cui si vedono due ragazze abbracciate, una nera e una bianca, mentre partecipano a una manifestazione “arcobaleno”. È chiara l’allusione al Ddl Zan che il Parlamento ha bocciato con tanto di applauso francamente vergognoso da parte di troppi e troppe parlamentari verso un provvedimento indispensabile. Tornando comuque alla domanda iniziale, se la pubblicità della moda incide, risponde affermativamente e con convinzione Maria Luisa Frisa. E lei può avviare un discorso ben più ampio.

Maria Luisa Frisa ha i titoli per parlarne. Oltre a una vivacità culturale e a un’attenzione prestata a certi temi da tempo e non solo da oggi, dirige il Corso di laurea in Design della moda e Arti multimediali all’Università Iuav di Venezia (clicca qui per il sito), presiede la Misa, l’Associazione Italiana degli Studi di Moda, è critico e “fashion curator”, è esperta di cultura visuale, dirige per Marsilio Editori (clicca qui per il sito) la “Collana Mode”, conosce l’arte. La studiosa ha curato anche molte mostre e i rispettivi cataloghi. Tra i tanti titoli: “Lo Sguardo Italiano. La fotografia italiana di moda dal 1951 a oggi” (Milano, 2005) oppure “Pasquale De Antonis. La fotografia di moda 1946-1968” (Roma, 2008). Tra i libri ha curato “Total Living” con Mario Lupano e Stefano Tonchi (Charta, 2002) e il catalogo della 50esima Biennale di Venezia “Sogni e Conflitti. La dittatura dello spettatore” che fu diretta da Bonami (Marsilio, 2003). Nel 2011, sempre per Marsilio, ha pubblicato il volume “Una nuova moda italiana”.

In uno spot due ragazze partecipano abbracciate a una manifestazione arcobaleno, una è nera e una bianca: cosa ci dice questa pubblicità? Interviene su un tema d’attualità come il ddl zan?

Certo. La moda è molto attenta alle tematiche più importanti della nostra contemporaneità, a tutto quello che è legato a un life-style, a una cultura del design della moda, del prodotto, a una comunicazione delle cose che contribuiscono alla qualità della vita di ciascuno di noi. Si passa dall’inclusione alla transizione ecologica alla multispecie al rispetto delle altre culture. Queste cose a questo livello di comunicazione vengono immediatamente recepite. Si dà una fotografia reale del mondo. Basta vedere le Olimpiadi e la gente per strada nelle nostre città per accorgercene. E credo che ciò sia molto giusto.

Queste immagini incidono nella mentalità comune?

Sicuramente sì, ne sono convintissima. Per esempio ritengo che un tema legato alla fluidità di genere sia diventato più vicino a tutti grazie alla moda, all’immagine che dà delle ragazze e dei ragazzi di oggi. Di sicuro alza l’attenzione su certi temi.

Adesso nella pubblicità di moda si iniziano a vedere anche donne non filiformi bensì “curvy” , con un termine francamente piuttosto brutto.

Concordo, è orrendo.

Bene. Il modello delle ragazze magrissime viene finalmente messo in discussione? E quanto quel modello ha fatto danni, visto che tra le ragazze l’anoressia sembra sempre più diffusa?

È un tema molto delicato. Va chiarito: la moda ha bisogno di un corpo astratto che non deve diventare uno scheletro ma che non sia non connotato. Infatti la parola mannequin deriva da manichino. Si può ben immaginare che sarebbe molto complicato mandare in passerella una collezione che veste un corpo diverso dall’altro. Negli atelier i designer fanno prove su ragazze che hanno una taglia normale, adesso tutti sono impegnati a lavorare su una taglia 40-42 e gli abiti vengono fatti su un unico corpo altrimenti comporterebbe un costo terribile. Sicuramente un certo ideale di magrezza ha contribuito a mandare dei messaggi di un certo tipo, però non è recente, c’è sempre stato: pensiamo a certe donne degli anni Venti. Il problema secondo me è: se la moda in certi casi ha forse esagerato nel mandare modelli sbagliati, c’è da dire che è sempre più un fenomeno legato a dei disagi che non sono solo il desiderio di mettersi un certo vestito (e non credo sia così), ma sono legati al desiderio di far scomparire il corpo.

Sulle passerelle sempre più magri e tristi

 

In tema ambientale? Ci sono spot o fotografie che affrontano in modo diretto l’emergenza climatica e dell’ambiente visto che stiamo andando verso il disastro planetario se non si interviene?

Nelle campagne di comunicazione di moda, il settore che conosco meglio, c’è un grande rispetto dell’ambiente e della natura. Il paradosso della moda è che è molto più sostenibile di quanto si pensi. Solo che il consumatore finale sta attento fino a un certo punto a questo valore, non fa vendere. Allo stesso tempo è importante per la moda dare segnali su tutta la produzione della filiera. Posso assicurare ad esempio che c’è un grande controllo su come vengono lavorate le pelli. Ma sostenibilità sono anche le condizioni di lavoro delle persone. La moda è molto attenta e lavora però sulle “buone pratiche”.  Come mi diceva un designer importante, non è solo il risultato finale ma è un atteggiamento che si deve avere nella predisposizione della filiera. E se dovessimo essere veramente sostenibili, e questo lo dico io, non dovremmo più indossare i jeans, che peraltro non ho mai portato: sono l’indumento meno sostenibile che esista, non ricordo quanti litri di acqua occorrono per produrne un paio. Però fa più colpo dire che hai la maglietta di cotone ecologico. Non ha alcun senso. Come il dire di smettere di fare le pellicce. Ma una pelliccia sintetica è più inquinante di una vera. Allora qual è il confine?

I termini in effetti sembrano problematici, non delineati in bianco e nero.

Come dice un mio amico, uno dei maggiori esperti: se volessimo essere veramente sostenibili l’uomo dovrebbe scomparire dalla faccia della Terra. Sarebbe l’unico modo.

 

Maria Luisa Frisa. Foto Francesco de Luca

 

Un modello che non viene messo in discussione però è la ricchezza. Intendendo con ricchezza non la persona benestante ma quella dal patrimonio smisurato. Una strettissima élite ha una quantità di soldi al di là dell’immaginazione, il che ha ripercussioni politiche ed economiche molto pesanti. Viene da pensarlo vedendo la pubblicità di una borsetta che magari viene venduta a 40-50mila euro. Sul modello della ricchezza smisurata la moda non può fare molto?

Pensiamo che monsieur Arnault, il proprietario di marchi importanti come Dior, Celine, Tiffany, è uno degli uomini più ricchi del mondo e in un momento è stato al primo posto. Però non mi sento di dire “ah la ricchezza, la ricchezza”. Mi sembra giusto dire che queste persone devono sentirsene responsabili. Se una borsa costa 40mila euro e uno se la può comprare dobbiamo pensare che fare quella borsa dà lavoro a un sacco di persone. Ci dimentichiamo sempre che buona parte del Pil italiano è tenuto su dalla moda: ci sono regioni come Toscana, Veneto, Lombardia, il distretto napoletano del pellame e della sartoria, con le fabbriche che producono gli oggetti più belli nel mondo. Questi oggetti cari portano lavoro a tanta gente. Credo che il tema sia un altro: che le persone che ci lavorano siano ben pagate, che ci sia un’assistenza per le donne che lavorano, questo è importante. 

Infine: oggi è l’arte che pesca dalla moda o la moda dall’arte?

Direi che sono due modi diversi di pescare. Tra l’arte e la moda c’è sempre stato un rapporto come tra vasi comunicanti. La moda assume molte pratiche progettuali simili a quelle degli artisti. Nello stesso tempo gli artisti guardano la moda e anche grazie alla moda possono fare opere gigantesche. La moda adora l’arte e aiuta moltissimo gli artisti comprando le opere, facendo il mecenate. I nuovi mecenati sono monsieur Pinault che ha Palazzo Grassi e Punta della Dogana qui a Venezia, Prada che ha due fondazioni d’arte. Sono persone che permettono agli artisti di fare mostre e a noi di vedere quelle opere. È un rapporto a doppio senso.