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Mario Botta: io, architetto, dico che ci salva l'umanesimo, non la tecnologia

Dalle sue case ai musei alle chiese: in questa intervista si racconta uno dei principali architetti del mondo in occasione del festival di architettura e di una mostra al Maxxi a Roma: "Dai miei maestri alla scommessa del Mart di Rovereto"

Stefano Milianidi Stefano Miliani   

Dal museo Mart di Rovereto alla chiesa sul Monte Tamaro, dalle abitazioni ai teatri alle biblioteche, per l’architetto Mario Botta progettare costituisce una pratica etica ancor prima che un mestiere. Oppure, se preferiamo metterla in un altro modo, per il progettista costruire un edificio dove abitare, vedere arte, pregare, meditare, significa mettere al centro l’essere umano, non la tecnologia. Potremmo interpretare così quanto afferma in questa intervista a Tiscali Cultura l’architetto con studio nella sua Mendrisio nella Svizzera italiana. E vale ascoltarlo: è senza discussioni uno dei maestri internazionali della nostras epoca. Lo spunto per intervistarlo è duplice e lo fornisce Roma.

Anzi tutto Botta partecipa al “Far – Festival di architettura”, appuntamento sulle città, sul nostro tempo, sulle trasformazioni urbane e sociali, sulla convivenza stessa. In calendario da sabato 11 a domenica 19 giugno, il festival vede l’architetto svizzero tenere una conferenza alle 12 del 13 giugno alla Casa dell’architettura nell’intrigante Acquario romano in piazza Manfredo Fanti 47, all’Esquilino a poca distanza dalla Stazione Termini: lo introducono Margherita Guccione, direttrice di Maxxi Architettura del museo nazionale delle arti del XXI secolo, Giorgio Ciucci e Luca Ribichini, presidente della commissione cultura della Casa dell’architettura e professore all’università della Sapienza. Organizza la rassegna, sempre ricca di molteplici sguardi, l’ordine degli architetti di Roma e provincia che ha la sede all’Acquario. Altri appuntamenti del festival si tengono a Ostiense, nel Parco Schuster, area verde tra la via Ostiense, il Tevere e la Basilica di San Paolo.

Clicca qui per il Far – Festival dell’architettura, Roma

L’altro motivo per sentire l’architetto è la mostra “Mario Botta. Sacro e profano”, nella galleria Gian Ferrari del Museo Maxxi fino al 4 settembre: curata da Margherita Guccione e Pippo Ciorra, la rassegna propone prototipi, modelli di edifici, un padiglione ligneo, un documentario e altro. La rassegna rimanda anche a un notevole progetto a Sambuceto, presso Pescara: qui, su commissione dell'arcivescovo di Chieti e Vasto Monsignor Bruno Forte Botta sta realizzando un complesso religioso che viene inaugurato in questo mese di giugno per completare prossimamente l'interno della chiesa.

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Architetto, da giovane ha lavorato con architetti straordinari come Le Corbusier e Louis I. Kahn che hanno connotato lo sviluppo dell’architettura del ‘900, ha studiato con Carlo Scarpa… Se dovesse indicare una lezione che ha appreso da questi maestri, quale indicherebbe?

Comincerei con Carlo Scarpa che ho incontrato all’università. È il maestro dei materiali, dei dettagli, soprattutto dava una forma espressiva altissima e una dignità anche ai materiali più poveri come la terra, la ghiaia. Veniva da un artigianato rinascimentale, modellava la materia per resistere alla statica e al tempo, con un sapere artigianale millenario. È una scuola formata attraverso i secoli che lui reinterpretava con la cultura del moderno.

Le Corbusier?

È forse colui che più di altri ha saputo trasformare i problemi della vita in architettura. Subito dopo la guerra lui faceva case a schiera con tipologie razionaliste. Ci fu il momento delle città-capitali e ha costruito Chandigar in India. Negli anni ’50 fece la Cappella di Notre-Dame du Haut a Ronchamp in Francia: inventò una figura che era un salto stilistico e qualitativo, interpreta anche le avanguardie artistiche, Ronchamp è anche figlia di Picasso. Le Corbusier trovava sempre delle ragioni profonde, degli equilibri ecologici, una sostenibilità si direbbe oggi, per far sì che l’habitat dell’uomo sia con armonia con la natura.

E Kahn?

Più di altri ha intuito i limiti del progresso tecnologico. Diceva: fate attenzione, lo sviluppo tecnologico non è la panacea di tutti i mali, anzi, anche la tecnologia digitale pone qualche problema al vivere fisico.

Un discorso anche etico lega i tre architetti?

Certo, sono maestri di architettura perché la componente etica copre tutto il loro atteggiamento: la tecnologia è vista come uno strumento, non come apologia della tecnica o soddisfacimento delle pulsioni. Sono insegnamenti che mettono l’etica del costruire come base dello spazio di vita dell’uomo.

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Che influenza ha avuto Le Corbusier sul progettare uno spazio sacro?

Le Corbusier ha stravolto la tipologia della chiesa. La chiesa di Ronchamp vive perché c’è la collina e la collina vive come paesaggio perché c’è la chiesa. Le due componenti sono talmente legate che non è più possibile separarle. Se penso a Ronchamp penso alla collina e se penso alla chiesa penso alla tipologia di questa barca rovesciata che dà un segno spettacolare al paesaggio che non lo si può più pensare senza.

Quanto dice fa pensare alla sua chiesa sul monte Tamaro.

Vero, anche se non l’avevo pensata in questi termini. Lì c’era l’eccezionalità di questo “chiodo” piantato nella montagna che viene trasformata. A Ronchamp è la chiesa che rovescia il concetto di paesaggio perché lo connota inscindibilmente dal fatto ecclesiale. 

 

Mario Botta, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto – Mart. Foto Pino Musi

 

Cosa ha significato per lei passare dalla piccola scala degli edifici residenziali degli esordi, come quelli nel Ticino, a grandi edifici pubblici o sacri?

Ha significato aprire la dimensione collettiva. Ho lavorato molto sulla casa piccola, la casa-alloggio, come una sperimentazione per l’habitat. Gli altri temi che mi sono trovato ad affrontare sono il teatro, come a Chambery in Francia, biblioteche, musei. Voleva dire che il destino di queste strutture collettiva apriva anche alla dimensione della città. Non si può fare un teatro senza pensare alla città. Una casa sì. Aprirsi a questi temi collettivi significa essere chiamati a interpretare nel contemporaneo una memoria che c’è. Il salto di scala è far propri temi come la biblioteca, il teatro, il museo, nella cultura del proprio tempo.

Parlando di musei nel suo caso vengono a mente il Mart, il Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto (dove si trova) o l’ampliamento del Moma di San Francisco. Creare un luogo culturale pubblico è anche un atto politico nel senso di atto civico?

Sì, è la polis che entra come committente. Dovevo ampliare il Mart per esempio che non era solo il teatro, il Mart è una parte del Corso Bettini quindi dello sviluppo urbano e poneva il problema di questo cordone ombelicale che legava il centro storico e andava fino a Trento. Questi diventano temi di una crescita urbana alla quale bisogna dare risposte con camminamenti, con il verde, con temi del XX secolo.

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Il Mart ha una sorta di “piazza” accogliente sotto una volta spettacolare.

È un’invenzione per la città. Non ho fatto altro che riprendere l’idea dei vicoli e far sì che uno dei vicoli di entrata al museo diventasse una piazza, lo slargo, la parte esterna del museo. Abbiamo museificato una parte della città.

Ha però anche trasformato la città stessa. Tanti sono venuti a Rovereto perché c’era il Mart. Ha dato un altro passo a Rovereto.

Il museo è anche Rovereto, è nato tra l’altro con grandi artisti, i più moderni, e perché il seme artistico c’era già: Depero negli anni ’20 del ‘900 era un pezzo di avanguardia. Ma non esisterebbe se non ci fosse stata Gabriella Belli (allora nominata direttrice del Mart, ndr) che era l’animatrice, che ha intuito come una zona periferica come quella avrebbe potuto diventare un interlocutore internazionale. Ora il museo si è consolidato, all’inizio era una scommessa: ogni tanto si vince con il coraggio però deve essere supportata dalla città e dalla sua memoria.

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Lei ha fondato l’accademia di Mendrisio, una delle scuole di architettura più prestigiose: cosa significa e qual è il suo rapporto con la formazione dei giovani?

L’accademia è stata fondata grazie a circostanze favorevoli che ho preso al volo. Nasceva l’università della Svizzera di lingua italiana e cominciammo con l’accademia di architettura, non con altre discipline. L’ho chiamata accademia e non politecnico per dare il senso della formazione umanistica fin dal principio: se qualcosa la distingue è che le scienze tecniche vengono indirettamente subordinate alle discipline umanistiche che per me hanno un ruolo di formazione più importante. Aver studiato a Venezia ha fatto sì che per me la formazione umanistica diventasse prioritaria e, per affrontare la complessità del moderno, ritengo sia più importante delle discipline tecniche (e questo le mette in crisi). Il mondo pensava che con la tecnologia e il computer si potessero risolvere anche tutti i problemi dell’abitare, noi pensavamo servisse una riflessione storico-filosofica.

Clicca qui per l’Accademia di Mendrisio

Lei ha raccontato ad Antonio Gnoli su “Robinson” di Repubblica che a scuola non era uno studente brillante tranne che nel disegno e nella matematica. Quindi l’importante è trovare la propria strada?

Tutti possiamo sentirci inadatti a tante cose, poi la vita ti offre delle possibilità e puoi declinarle come meglio credi. Nell’aver declinato la matematica e il disegno mi sembra di aver fatto un buon passo.  

 

 

Stefano Milianidi Stefano Miliani   
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