“Una foto femminista? Dipende dal tipo di sguardo, ecco perché può farla anche un uomo”. Le foto
Federica Muzzarelli dell’università di Bologna ha curato la mostra alla Fondazione Sabe “Fotografia e femminismi” dalla collezione di Donata Pizzi. E spiega: “Molte fotografe non erano apprezzate perché donne. Ma i tempi cambiano, ora se ne occupano anche i ragazzi”
Esiste un occhio femminile speciale quando si tratta di fotografare persone o cose? Esiste una fotografia femminista? Come si distingue? Invita a queste domande la Fondazione Sabe per l’arte di Ravenna con la mostra aperta fino al 15 dicembre “Fotografia e femminismi. Storie e immagini dalla Collezione Donata Pizzi”.
Risponde a quegli interrogativi, e spiega come dipenda dal tipo di sguardo per cui per paradosso anche un uomo può scattare una foto di impronta femminista, Federica Muzzarelli: ordinaria di storia della fotografia all’Università di Bologna, è la curatrice della rassegna realizzata con il gruppo Faf / Centro di ricerca fotografia arte e femminismo del Dipartimento delle arti dell’ateneo felsineo fondato insieme a Raffaella Perna della Sapienza di Roma e a Cristina Casero dell’università di Parma, e inserita nel progetto “Prin 2020” “La fotografia femminista italiana”.
La mostra raccoglie una dozzina di artiste di più generazioni: da nomi storici come Liliana Barchiesi, Lisetta Carmi, Lucia Marcucci, Paola Mattioli e Tomaso Binga (alter ego di Bianca Pucciarelli Menna) fino a Martina Della Valle, Giulia Iacolutti, Moira Ricci, Alessandra Spranzi e Alba Zari. Una riproduzione anastatica ripropone alcune maquette del volume collettivo femminista del 1978 “Ci vediamo mercoledì. Gli altri giorni ci immaginiamo”. Interviene qui Muzzarelli, 52 anni.
Professoressa, cos’ha di rilevante la collezione di Donata Pizzi?
È rilevante perché racconta la storia di una collezionista, di una donna e fotografa che si rende conto di una lacuna, di un vuoto storiografico ed espositivo: decide di collezionare autrici di grande interesse perché a avviso suo, e di tutte, non erano conosciute e apprezzate come meritavano dalle istituzioni pubbliche.
Non erano apprezzate perché donne?
Sì, lo possiamo dire. Ed è il motivo che ha mosso Donata Pizzi. Da operatrice del settore e fotografa lei stessa, viveva una situazione che conosceva in maniera consapevole. Così ha cominciato ad acquistare lavori di donne artiste e non solo – cosa lecita e normale – per il proprio piacere. Lei ha avuto sempre anche un obiettivo molto collettivo: costituire un fondo, un archivio privato da mettere a disposizione delle persone, della società civile, della gente, di storici, curatori, istituzioni. Lei è collezionista per gli altri e soprattutto per le giovani generazioni. Nel nostro centro di ricerca all’università arrivano ragazze e, segno dei tempi che cambiano, anche ragazzi: pure gli uomini si interessano di femminismo e Donata lo trova entusiasmante. Per chiudere il cerchio nel 2025 aprirà uno spazio suo a Roma per studiosi e ricercatori.
Come nasce la mostra di Ravenna?
Avevo già lavorato con la collega Raffaella Pensa e l’idea nasce nella Fondazione Sabe e da un progetto finanziato dal Ministero della cultura e dedicato alle fotografe italiane dall’800 fino agli anni ‘80 del ‘900. Ci stiamo lavorando come gruppo di ricerca tra più università: Bologna, la Sapienza e Roma3 di Roma, Parma, con giovani dottorandi, assegnisti e ricercatori. Con la Fondazione Alinari per la fotografia, l’Archivio e la Casa delle donne di Roma Donata sono nostri partner. Il gruppo si chiama “Fotografia arte femminismi”.
Una domanda ricorre sulle arti e la fotografia: a suo parere esiste uno sguardo femminile nella fotografia? Qualcosa che permette di dire: questa immagine è stata scattata da una donna?
A questa domanda preferisco rispondere così: ci sono contesti, situazioni e condizioni che hanno accomunato e accomunano ancora le donne rendendole più vicine e più coinvolte in certi temi.
A volte è difficile distinguere.
La storia della fotografia è piena di donne reporter di guerra, di architettura …. Può essere rischioso pensare che esiste una condizione essenziale e naturale, dipende dalle situazioni. Per paradosso anche un uomo può fare una foto femminista, non è una condizione pre-culturale. Nel titolo della mostra usiamo “femminismi” al plurale, non parliamo solo di donne ma di marginalità, di alternatività al sistema dominante, parliamo di contesti che condizionano e rendono più attenti o più bisognosi di trasmettere certi messaggi. Usiamo l’espressione dello sguardo delle donne ma non possiamo dire che è dato a priori, né tutte le donne hanno bisogno di uno sguardo femminile.
Si corre il rischio di ghettizzare?
Credo di sì. La filosofa americana Claire Raymond nel saggio “Women Photographers and Feminist Aesthetics” scrive che ci sono messaggi femministi e immagini femministe anche in modo inconsapevole: si può esserlo anche senza averlo percepito, usando il femminismo in senso trasversale. Per assurdo può essere femminista anche una fotografa ottocentesca che non ha mai militato in un movimento né fatto dichiarazioni. Il messaggio è nell’immagine, è quando metti in discussione i codici, le norme, gli stereotipi, la visione dominante: credo sia il livello di lettura più interessante. Per capirci diciamo dello sguardo femminista ma, in una lettura più approfondita, bisogna partire da quello che trasmettono le immagini: la comunanza viene da esperienze comuni le quali determinano le poetiche condivise.
Come ha scelto le foto della mostra?
Partendo dalle idee, dai contenuti che mi sembrano ricorrenti nella collezione, da temi implicitamente femministi. Per esempio c’è il tema dell’album di famiglia, il recupero della memoria, l’autobiografia per immagini e in forma di dialogo intergenerazionale tra una fotografa storica degli anni ‘60-70 con altre più giovani. Tomaso Binga dialoga con Moira Ricci e Alba Zari. Oppure vediamo il tema dell’identità di genere con lo storico lavoro sui travestiti di Lisetta Carmi in dialogo i travestiti nel penitenziario di Città del Mesico fotografati da Giulia Iacolutti. Un altro focus affronta gli stereotipi e gli spazi domestici: le casalinghe degli anni ’70 di Liliana Barchiesi dialogano con le immagini di Alessandra Spranzi dai colori che richiamano le riviste femminili degli anni ’60; la poesia visiva di Lucia Marcucci si confronta con Martina della Valle sulle censure sociali. Chiude la mostra un focus su “oggetti e libri femministi” con un lavoro di Paola Mattioli del 1974.
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