Inquinamento, sogni e Amazzonia alla Biennale di architettura. Il visto negato a tre collaboratori ghanesi guasta l'apertura. Fotoreportage
La mostra veneziana di Lesley Lokko ha installazioni d’arte, foto e video per riflettere su inquinamento e idee alternative, a partire dall’Africa. Tra scempi e progetti, cosa racconta il Padiglione Italia del collettivo italiano Fosbury Architecture
Alla Biennale di architettura di Venezia 2023 dal titolo “Il laboratorio del futuro” impaginata da Lesley Lokko, nella sezione all’Arsenale una foto mostra un fuoco ardere in un acquitrino fra tronchi morti e anneriti e la boscaglia. È il Delta del Niger in Nigeria, ex paradiso naturale trasformato in un incubo dalle estrazioni petrolifere senza alcun guadagno per le popolazioni locali. Qualche sala più in là un video proietta su una tavola divinatoria ovale in legno palme e mangrovie vicino alla megalopoli nigeriana Lagos ricordando che le foreste di mangrovie “immagazzinano fino a dieci volte più anidride carbonica rispetto alle foreste terrestri”. Oppure l’installazione “Regenative Power” descrive la comunità britannica con origini nelle Indie occidentali nel quartiere di Brixton a Londra: un edificio donato alla comunità ospita un club dove gli abitanti giocano appassionatamente a domino e una mensa per poveri, ovvero dai conflitti sociali negli anni ’80 a una ricomposizione collettiva. In un video più in là un membro del popolo Inga in Colombia descrive gli sforzi per co-creare con un’artista svizzera un’università indigena e tramandare anche ai giovani la cura e la conoscenza della foresta amazzonica. Ai Giardini il Padiglione brasiliano (che come ogni padiglione nazionale è autonomo) ricorda azioni di indigeni per salvare la biodiversità amazzonica mentre il Canada inscena le proteste contro la città a misura di chi ha soldi o del turismo ai danni di tanti abitanti costretti a sloggiare.
A questo punto domanderà più d’una persona: tutto ciò è architettura? Cosa c’entrano con la disciplina del costruire ideando belle forme? Dove sono finiti i bei progetti, i disegni architettonici, i plastici o le soluzioni per riorganizzare le nostre città? Non sono domande peregrine né da snob, sia chiaro, meritano una risposta.
Immaginare dall’Africa un futuro per tutti
Architetta, ex docente, scrittrice, teorica, intellettuale a tutto tondo, Lesley Lokko, scozzese con cittadinanza anche ghanese, lo ha detto dappertutto: questa mostra vuole immaginare un futuro adeguato al genere umano e al pianeta. “Vuole essere un’esperienza e informare”, proclama in conferenza stampa. Sottinteso: l’ingiustizia sociale, l’inquinamento, le devastazioni, la colonizzazione sono vicoli ciechi. Così lei e i tanti staff hanno scelto installazioni e video prossimi più all’arte contemporanea lungo un filone già battuto da altre Biennali di architettura. Stavolta la scelta è ancora più netta e il perno ruota soprattutto a sud del Mediterraneo, in Africa. Dalla fotogallery che accompagna questo articolo speriamo possiate farvi una qualche idea. Abbiamo suddiviso le immagini così: prima l’Arsenale, compreso il Padiglione Italia, poi i Giardini.
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Con l'Emilia-Romagna sott'acqua le archistar avrebbero stonato
Alla domanda se sia architettura proviamo a rispondere uscendo da Venezia. Visitabile dal pubblico da sabato 20 maggio fino al 26 novembre, la Biennale di Lesley Lokko 2023 ha aperto ai media mercoledì 17 maggio e giovedì 18. Nelle stesse ore l’Emilia-Romagna si è allagata arrivando a ben 13 morti alla sera di giovedì, acqua e fango hanno invaso case, città, imprese agricole e fabbriche, in due giorni è venuta giù tanta acqua quanto ne cade in un anno a ruota dei nubifragi di due settimane fa e di una siccità invernale. Qualche meteorologo lo ha detto chiaro e tondo: se non capiamo che abbiamo stravolto il clima siamo irresponsabili o peggio.
Allora figuriamoci una Biennale dove si vedevano bei plastici, progetti stupendi firmati da archistar, una riflessione storica sull’architettura italiana o quella classica, per fare esempi a caso. Mentre territori interi vengono devastati l’effetto sarebbe stato a dire poco straniante, come viaggiare in un mondo estraneo alle nostre vite. Non perché la cronaca si impone ma perché quanto accade in Emilia-Romagna non è cronaca passeggera, è il presente e più ancora il tempo dei figli, dei nipoti, dei bisnipoti, di chi verrà.
Lesley Lokko vuole immaginare altro. Tanti studi di architetti o professionalità contigue l’hanno seguita in modi più o meno fantasiosi, spesso riuscendoci, scartando un’architettura concepita per chi ha tanto danaro e progetta di scampare ai guasti, come sfoggio di potere.
Non tutti convincono, beninteso. Né sono incisive le due sale introduttive: l’ottagono circondato di specchi, con frasi di Rem Koolhaas James Baldwin a led, all’Arsenale, l’ottagono al padiglione centrale ai Giardini, in tutta franchezza non illuminano molto né brillano per originalità. Dopo il discorso si fa più forte.
Uno sguardo dirompente
La curatrice richiama a Venezia lo sguardo dirompente da tante Afriche, tanto più dirompente in tempi di sovranismo e quando qualcuno ai vertici del nostro Paese evoca una “sostituzione etnica” rispolverando concetti molto in voga giusto un secolo fa in regimi che non vale neppure nominare. Qui al contrario si racconta una storia sparsa di energie, soprattutto giovani, che hanno individuano prospettive dalle loro postazioni in luoghi dove servizi come internet ballano o la vita spesso è aspra. Solo che qui bisogna inserire una brutta vicenda introdotta dal presidente dell’ente veneziano Ciccuto in conferenza stampa e rilanciata da Lesley Lokko.
Negato il visto a tre collaboratori ghanesi
In breve ecco quanto ha raccontato la direttrice: la mostra è frutto di una miriade di collaborazioni per il mondo, eppure ai tre giovani collaboratori ghanesi con base ad Accra l’ambasciata italiana ha negato il visto per venire a Venezia perché, ha riferito la direttrice, nutriva “ragionevoli dubbi sulle vere intenzioni” dei tre “di lasciare il territorio” italiano “prima della scadenza del visto”. “Non è stata data una spiegazione su quali erano i motivi dei ragionevoli dubbi”, ha esclamato la curatrice. Amareggiata, ferita, Lesley Lokko non si dice stupita: “è una storia scontata, fin troppo familiare alla maggioranza delle persone che non sono in questa sala. Non è la prima volta che accade: succede alla mia famiglia, ad amici, a collaboratori”. Domanda ingenua: se i tre ghanesi fossero stati bianchi, avrebbero avuto quel visto?
Il Padiglione Italia: il mal Paese da riprogettare
Una tappa, doverosa e giusta, la richiede il Padiglione Italia, in fondo all’Arsenale. Quest’anno ha come titolo “Spaziale. Ognuno appartiene a tutti gli altri”, lo ha coordinato il collettivo Fosbury Architecture, promosso dalla Direzione generale creatività contemporanea del Ministero della Cultura quando era ministro Dario Franceschini e in qualche modo è in linea con lo spirito della curatrice scozzese-ghanese.
Il Fosbury Architecture è formato da Giacomo Ardesio, Alessandro Bonizzoni, Nicola Campri, Veronica Caprino, Claudia Mainardi e ha affidato a nove co-curatori e progettisti sotto i 4 anni altrettanti interventi sparsi per l’Italia, con appuntamenti iniziati a gennaio e ora raccolti per una sintesi visiva a Venezia. Si va da un’azione a Taranto inquinata a un un obbrobrio cementizio mai completato né demolito a Ripa Teatina in Abruzzo (imperdibili le immagini video di quando venne inaugurato), si passa da un progetto a Montiferru (Oristano) a un ambiente urbano marginale nella terraferma veneziana, da un’installazione sul progetto innovativo di Librino a Catania a una performance in video tra i tetti di Trieste.
Occorre leggere le lunghe schede per comprendere di cosa si parla se no sfugge qualcosa, pur se il vasto spazio è visivamente suggestivo. Una visita troppo rapida o superficiale è sconsigliata, i video in loop alle due pareti opposte aiutano.
Claudia Mainardi: “Contesti fragili”
“Abbiamo voluto porre l’attenzione su contesti fragili, non nei grandi centri urbani” – spiega Claudia Mainardi a Tiscali Cultura individuando con rammarico la Liguria come “grande assente” con i suoi declivi e fiumi martoriati. “Con una rete di collaborazioni tra saperi diversi cerchiamo di ripensare a come declinare localmente problematiche globali. Non abbiamo la volontà di dare soluzioni ma di inquadrare i problemi delle nostre prospettive di progettisti”. Alla domanda se l’architettura non basta più a dare risposte la risposta è immediata: “No, non basta più”. Si torna al punto di partenza: questa Biennale ricorda, in più momenti in forma poetica, il bisogno urgente di darsi una mossa collettivamente, senza aspettare soluzioni dall’alto. Per ricordarsi dell’Emilia-Romagna allagata anche fra un anno, due, tre, non per qualche giorno per poi passare ad altro.
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