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"Influencer nei musei? Con la Ferragni agli Uffizi mancava un progetto culturale"

L’associazione di professionisti dei beni culturali “Mi riconosci?” pubblica un libro sulla gestione del patrimonio. L’attivista Leonardo Bison: "Si tende a privatizzare e non funziona"

Stefano Milianidi Stefano Miliani   

Come gestire i musei? Ricorrere alle / agli influencer è una buona idea? Il patrimonio culturale è in buone mani? L'associazione “Mi Riconosci? Sono un professionista dei beni culturali”, movimento che raccoglie molte migliaia di persone che lavorano nel settore, è molto critica su come viene gestita la nostra arte. Adesso ha pubblicato un libro dal titolo “Oltre la grande bellezza. Il lavoro nel patrimonio culturale italiano” (Derive Approdi, pp., 176, €17,00). Lo descrive Leonardo Bison, archeologo con un dottorato all’Università di Bristol (Regno Unito), un attivista di “Mi Riconosci?”. Nato ad Abano Terme nel padovano nel 1990, con Marina Minniti è uno dei due curatori e uno degli otto autori del volume dell’associazione.

Bison, di cosa tratta questo libro scaturito da una scrittura a più mani?

È un’inchiesta, una contronarrazione su più temi del patrimonio culturale del nostro Paese tra i quali il tema su come vi si lavora e quali sono le cause: si fotografano i dati e si analizzano le ragioni dovute a scelte politico-legislative dagli anni ‘90 che hanno portato alla situazione attuale. È importante dire che tutto quanto è frutto di discussioni e serviva un libro per darvi forma.

Può dirci qualche dato che ritenete particolarmente significativo?

Ne cito due. Nelle condizioni di lavoro il dato più emblematico è il salario medio che è sotto i sette euro l’ora. Al di là della cifra il trend è negativo dal 2016 in poi, è al ribasso. Si ricorre a contratti multiservizi, pensati originariamente per aziende di pulizia e per le mense, o addirittura a contratti di vigilanza, dove andiamo a quattro euro l’ora. I nostri dati più dettagliati risalgono al 2019 ma il lockdown ha aggravato lo scenario.

L’altro dato?

È il trend del privatizzare il patrimonio culturale. Dal 2004 lo Stato non crea musei statali ma istituti di proprietà statale gestiti da fondazioni. Penso al Maxxi di Roma, al Meis – Museo nazionale dell’ebraismo italiano e della Shoah di Ferrara, al Museo nazionale della Resistenza che aprirà a Milano.

Perché ritenete le fondazioni un fattore critico?

Siamo critici perché si crea un sistema in cui gli oneri sono pubblici e gli onori privati. Inoltre in Italia per come sono fatte si possono usare le fondazioni per posizionarvi persone. Avere un patrimonio pubblico gestito da privati ha conseguenze concrete nella società. Perché una fondazione ha interessi legittimi ma sono diversi da quelli di una comunità. Non è una critica tout court, critichiamo che si creino fondazioni in automatico senza valutazione né un dibattito pubblico. Il trend si è imposto senza un ragionamento né interno né esterno al ministero della cultura.

Nel libro avanzate anche proposte. Può dirne una?

Proponiamo un sistema culturale nazionale sulla falsariga del sistema sanitario nazionale. I luoghi culturali devono essere trattati come servizi pubblici essenziali che forniscano servizi a tutta la cittadinanza in un modo accessibile a tutti. Deve cambiare il paradigma. Per esempio non deve esistere un territorio con 60mila persone senza una biblioteca o un centro culturale: ciò ha conseguenze concrete sulla società, per esempio sulla criminalità, sull’esclusione sociale, sulla diffusione delle conoscenze.

Nel capitolo sulla comunicazione parlate anche di un nuovo fenomeno, le/gli influencer.

Sì, e si basa su un malinteso ovvero che l’influencer possa dare visibilità o notorietà a un bene culturale. Invece analizzando un po’ di casi spesso accade il contrario: è l’influencer a usare il bene culturale, non viceversa. Nella radicale mancanza di fondi e di progettazione spesso i luoghi di cultura sperano di risolvere i problemi tirando fuori soldi per una persona famosa, la quale può dare un contributo se esiste un progetto organico, altrimenti no.

Il caso più noto è quello di Chiara Ferragni che andò agli Uffizi per un servizio fotografico di Vogue nel luglio del 2020. Dopo le polemiche il museo ha risposto che grazie all’imprenditrice digitale molti ragazzi sono andati al museo per la prima volta.

È vero, gli Uffizi hanno parlato di aumento di visitatori ma era la terza settimana di luglio, l’aumento c’è stato in tutti i musei anche senza la Ferragni. È possibile, anche se non ci sono dati, che vedere la propria o il proprio beniamino al museo possa indurre una persona ad andarci, può accadere a chi è abituato, invece chi non ci andava prima guarda le foto della Ferragni e poi basta. Quel caso, inteso dalla stampa come emblematico, è in realtà un malinteso: era Vogue che pagava gli Uffizi, si è trattato di un normale servizio fotografico in un museo. Infatti quando la rivista ha pubblicato il servizio non se ne è parlato. A provocare rabbia non è Chiara Ferragni, è stato il post degli agli Uffizi, un servizio pubblico che fa pubblicità a un’azienda privata anche se simpatica quale è l’infuencer, il suo paragonarla alla Venere di Botticelli. Ma ci sono esempi più interessanti.

Ne può citare uno?

Martin Garrix è un dj molto famoso in tutto il mondo. Il 29 luglio 2017 ha fatto un concerto davanti ai templi di Selinunte in Sicilia. La sua casa discografica ha pagato 20mila euro, vendendo molti biglietti. L’idea del parco archeologico e sui giornali era che, grazie al dj seguito sui suoi canali da milioni di persone, molta gente che non conosce il sito sarebbe andata a Selinunte. L’anno dopo lì i turisti sono calati. Non è certo colpa del dj, avranno inciso diversi fattori, ma il calo si è verificato in un anno di crescita in quasi tutti i musei e siti archeologici italiani. Quando c’è un progetto culturale vero scegliere una celebrità può funzionare, inseguirla in modo caotico invece non funziona.

 

 

Stefano Milianidi Stefano Miliani   
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