Rene del figlio venduto per sfamarsi e altri orrori: “Per i fotogiornalisti italiani la libertà non è scontata”. Foto
Intervista al direttore artistico della mostra del World Press Photo in corso a Roma, Francesco Zizola: “Nessun fotogiornalista vive grazie alla stampa italiana, si vuole essere meno presenti dove le cose più scomode accadono”. E non dipende solo dai costi. Fotogallery

Da donne affette da demenza senile in Ghana a una donna incinta uccisa insieme al suo bambino da un bombardamento russo sull’ospedale a Mariupol, con uno scatto dell’ucraino Evgeniy Maloletka proclamata foto dell’anno; dalla carenza d’acqua causata dalla crisi climatica e da politiche dissennate a un bambino afghano privato di un rene venduto dalla famiglia per sfamarsi: il 66esimo concorso di fotogiornalismo del World Press Photo racconta come ogni anno dal 1955 il nostro tempo attraverso l’occhio dei fotoreporter professionisti. La mostra italiana della World Press Photo Foundation di Amsterdam è in corso fino al 4 giugno al Palazzo delle Esposizioni di Roma che l’ha organizzata con 10b Photography ed è promossa insieme dall’assessorato alla cultura di Roma Capitale e dall’Azienda speciale Palaexpo.
La pratica del fotogiornalismo, e con l’esercizio della libertà d’informare, corrono oggi rischi molto seri. Anche in Italia. Ne parla Francesco Zizola, che per decenni ha fotografato conflitti e situazioni difficili: il fotoreporter ha vinto dieci World Press Photo, è tra l’altro direttore artistico della mostra World Press Photo di Roma dal 2016 e dal 2007 della galleria 10b Photography di Roma.
Zizola, qual è lo stato del fotogiornalismo nel mondo a oggi?
Il poter fissare un’immagine su una superficie materica ha dato all’uomo la consapevolezza che la fotografia può essere la produzione di un documento storico. Sappiamo invece che questo linguaggio giovane, con poco meno di 200 anni, è soggetto all’interpretazione, e oggi più che mai può mentire perché con il passaggio al digitale si è moltiplicato esponenzialmente l’uso “artistico” di questo strumento. Nel mondo occidentale è maturata sempre più la consapevolezza che il fotogiornalismo è una visione parziale, per cui è necessario completare l’informazione data dalla luce con informazioni scritte, cioè con la famosa didascalia. Altrimenti le immagini da sole non possono garantire un racconto del reale come il documento fotografico a volte pretende di fare. Nel frattempo con la rivoluzione digitale tutti ricevono, possono produrre e mettere in circolo immagini per cui si è persa l’innocente visione della fotografia come specchio della realtà: si sa che può essere un’invenzione.
In che modo allora il fotogiornalismo può risultare credibile?
Può essere attendibile a patto che i fotogiornalisti osservino dei codici etici e deontologici che i media si danno. La World Press Photo Foundation è una delle istituzioni dotate di regole e di uno staff di grande qualità per verificare l’assoluta veridicità delle immagini sottoposte al concorso su quanto prodotto l’anno prima. È successo che qualche foto che non doveva essere premiata sia scappata ai controlli: si è dichiarato l’errore e ritirato il premio dato.
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In Italia si dà per scontato che nel settore ci sia libertà.
Non è scontata. È in corso un tentativo di ridurre lo spazio a disposizione per creare storie. Sono più i giornali che chiudono rispetto alle nuove aperture e questo colpisce il fotogiornalismo in modo particolare perché tra i vari media è quello che di più richiede la presenza del campo.

Il o la fotogiornalista deve andare in giro. Ciò significa un costo che sempre più spesso i media non vogliono o non possono affrontare.
Ho fatto il fotogiornalista per più di trent’anni e parlo con cognizione di causa e discernimento: devi essere proprio sul posto, neanche nell’albergo vicino, senza quella vicinanza non si può lavorare. “Vicinanza” vuol dire competenza, capacità di entrare in relazione con le realtà, con le persone, con le situazioni politiche, con i conflitti. Quei costi vengono tagliati sempre di più. Ma è difficile credere che siano tagliati solo perché l’economia dei media cambia: i fondi vengono investiti laddove si vuole investire.
Accade anche nel nostro Paese?
In Italia nessun fotogiornalista vive grazie alla stampa italiana che, tranne pochissime eccezioni, si nutre delle immagini prodotte dalla stampa internazionale. Da noi è particolarmente evidente il tentativo di diminuire la capacità di essere presenti là dove le cose più scomode accadono. Lo si vede anche al concorso del World Press Photo: partecipano sempre meno fotografi, soprattutto meno testate supportano le spese per i reportage, incluse quelle assicurative. Non penso solo alle testate cartacee ma anche a quelle online. È come se i cittadini non avessero più bisogno di conoscere il mondo. In realtà il desiderio è sempre più forte.
Intende il desiderio delle persone di sapere cosa accade?
Sì. C’è sempre più l’esigenza di avere racconti da lontano e da vicino che non siano superficiali, che siano approfondimenti circostanziati, seri, c’è il bisogno di dotarsi di strumenti razionali per smontare quello che dovrebbe essere considerato il pericolo numero 1 nel giornalismo, la propaganda. Invece la propaganda è uno dei sistemi di informazione corrente più finanziati.
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Il World Press Photo come affronta questo rischio?
Non è schierato, ha giurie composite con persone da Paesi, estrazioni sociali e religiose diverse, è una comunità che valuta collettivamente le immagini, è uno dei pochi esempi luminosi rimasti.
Il fotografo tedesco Boris Eldagsen di recente ha vinto una categoria del Sony World Photography Awards 2023 con la fotografia “Pseudomnesia: The Electrician” dove mostra una donna in primo piano con mani che la toccano, una donna alle sue spalle, effetti di luce. Poi ha sostenuto che i responsabili del concorso non avevano reso esplicito il fatto che lui aveva generato la foto con l’intelligenza artificiale e ha rigettato il premio. Cosa ne pensa?
Questo artista ha messo in atto una performance artistica per affermare come il mondo delle immagini non sia pronto a leggere la realtà contemporanea in modo più attento, come non sia capace di discernere ciò che proviene dal reale da ciò che è inventato e simula il reale. È un avvertimento molto importante per tutti noi, non solo noi operatori delle immagini ma per noi cittadini del mondo. Eldagsen ci dice: attenzione, dobbiamo dotarci di regole per distinguere ciò che viene dalla luce esterna da ciò viene prodotto dai circuiti di un computer dove le immagini fotografiche passano a un altro campo, più simile a quello della pittura.
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Creare una fotografia così non può avere ripercussioni politiche pesantissime? Pensiamo ad esempio se vediamo una figura politica che dà un pugno a un avversario senza poter capire che è tutto inventato.
Sì, ma attenzione, le persone devono pretendere di sapere se un’immagine è frutto di una registrazione di luce o di un computer. È come se si giocassero due campionati di calcio. In uno trasmesso in tv chi è abbonato segue la sua squadra sapendo che in campo ci sono determinate regole, i rigori, i falli, i fuori gioco … L’altro è un campionato con una partita virtuale che assomiglia in tutto e per tutto alla realtà quando dietro c’è un giocatore che manovra una squadra tramite computer. Sapendolo si sa di vedere due cose diverse anche se le immagini sono simili. Così come si dota di regole lo sport deve dotarsene il fotogiornalismo per rendere chiaro che devono essere sempre rispettate. Chi guarda è avvertito o dovrebbe essere avvertito e chi viola le regole deve essere sanzionato come accade a un giocatore di calcio in campo.
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