Cordoni ombelicali, ragni giganti, pezzi di corpo smembrati: Louise Bourgeois sconvolge e conquista tutti
Alla Galleria Borghese a Roma e al Museo Novecento di Firenze due retrospettive su un’artista che ha creato arte dai traumi, dal desiderio, dalla maternità. E con i suoi famosi ragni giganti simbolo della madre
A pensarci su potremmo anche stupirci del successo che ha riscosso anche tra il pubblico l’opera di Louise Borgeois, artista nata a Parigi nel 1911, trasferitasi negli Stati Uniti nel 1938, morta a New York nel 2010, scoperta dal mondo artistico solo negli anni '80. Per dire: ha creato ragni in bronzo enormi, magari mentre sembrano partorire qualche creatura tipo Alien, e benché tante persone non amino gli aracnidi (non chiamateli insetti) una sua scultura è diventata una delle icone più fotografate del Guggenheim Museum di Bilbao che peraltro organizzò una retrospettiva di grande successo nel 2016.
Il cordone ombelicale, il sangue, la carne
L’artista ha creato forme in apparenza dure da digerire, almeno secondo standard che vorrebbero identificare la bellezza con immagini stile top model della moda, oppure con una gradevolezza di origine rinascimentale: Louise Bourgeois ha creato immagini di cordoni ombelicali dove si percepisce il sangue, la carne. Louise Bourgeois ha dato forma a incubi ed escrescenze, ha creato gabbie, ha dato forma al senso dell’abbandono, alla maternità, a pezzi di corpo smembrati e assemblati, falli, vagine e cordoni ombelicali, alla rabbia provata verso genitori problematici, difficili. Così le sue immagini possono apparire difficili da digerire. Invece per qualche recondito motivo, forse sano, forse morboso nella nostra psiche, conquista e diventa difficile staccare gli occhi dalle sue forme. Sembrano ribadirlo due mostre parallele in corso a Roma e a Firenze.
L’inconscio alla Galleria Borghese
Nella capitale la Galleria Borghese ospita una ventina di opere, per lo più installazioni, collocate tra le sue sculture antiche, i marmi e gli specchi, vicine alle vertiginose sculture del Bernini e a Canova, esponendole anche nel padiglione dell'Uccelliera e nel Giardino della Meridiana, non solo nelle sale del cardinal Borghese. La mostra si intitola “Louise Borgeois. L’inconscio della memoria”, l’hanno curata Cloé Perrone, Geraldine Leardi e Philip Larrat-Smith, dura fino al 15 settembre ed è organizzata dal museo diretto da Francesca Cappelletti insieme alla Easton Foundation e all’Accademia di Francia a Roma – Villa Medici che espone a sua volta un’installazione, “No Exit”.
L’abbandono al Museo Novecento fiorentino
Prosegue invece fino al 20 ottobre “Louise Borgeois in Florence. Do Not Abandon Me”, al Museo Novecento, a cura di Philip Larrat-Smith e del direttore Sergio Risaliti: qui è alto soprattutto il numero delle gouache; la integra nello stesso periodo un’appendice di un’opera esposta al Museo degli Innocenti in piazza Santissima Annunziata, “Cell XVIII (Portrait)”, per le cure sempre di Larrat-Smith stavolta insieme ad Arabella Natalini e Stefania Rispoli.
Il ragno, simbolo materno
Il ragno è, per Louise Borgeois, un simbolo materno, procrea, è intelligente, ricorre spesso nel suo lavoro e non poteva mancare nei due appuntamenti. A Roma un grande ragno è nel giardino, a Firenze domina il centro del chiostro dell’ex convento.
Forse anche perché abbiamo bisogno di sublimare traumi e desideri in forme tutt’altro che levigate, le opere dell’artista sanguinano (basta guardare le gouache del parto esposte al museo fiorentino), sono espressione viscerale di una donna. “Faccio disegni per sopprimere l'indicibile. L’indicibile non è un problema per me. Anzi, è l'inizio del lavoro. E la ragione del lavoro; la motivazione del lavoro è distruggere l'indicibile”, dirà in una dei brani divulgati dall’istituto fiorentino. Dove si raccoglie una corposa serie di gouache dal colore rosato su parti del corpo femminile, come una vista frontale durante un parto o perfino un uomo di profilo con pene in vista e un pancione di gravidanza diventando un ibrido. Queste opere parlano, infatti, del corpo, di maternità, di vita, di una fallocrazia distruttiva, di una famiglia opprimente, di elementi che investono tutti in un modo o nell’altro, del senso di abbandono palesato in gabbie piene di oggetti insoliti, spiazzanti.
Tracey Emin: “Nessun uomo poteva fare quello che faceva Louise”
Si può dire che la sua è arte inequivocabilmente di una donna? Terreno scivoloso, e lei stessa avrebbe probabilmente rigettato l’ipotesi di venire inquadrata in un genere. A proposito l’artista britannica Tracey Emin, una delle esponenti più accreditate e un tempo arrabbiate dell’arte diventata amica della Bourgeois, ha colto nel segno. Intervistata da Dario Pappalardo sul Robinson del 23 giugno scorso, ha notato: “Manteneva una sua femminilità nei lavori. Nessun uomo avrebbe potuto fare quello che faceva Louise: qualcosa di ultra femminile e, talvolta, enorme nelle proporzioni. Ha rotto una marea di barriere per noi. È stata un modello eccezionale”. Non seve aggiungere molto altro.
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