“In America la follia di Trump erode la verità. Ma la questione razziale è una rivoluzione salutare”
Massimiliano Gioni, che diresse la Biennale 2019 e lavora a New York, in questa intervista parla degli Usa, di impegno e arte in occasione di una mostra sul “nuovo realismo americano” a Palazzo Barberini a Roma. Il museo cambia l’allestimento di Caravaggio
“Sia da destra che da sinistra in America c’è una sorta di erosione dell’autorità, della cultura e della verità”. E in parte “è successo con la follia di Trump che ancora sostiene di aver vinto le elezioni contro qualsiasi evidenza empirica”. A dirlo è Massimiliano Gioni, già direttore dell’inventiva Biennale di Venezia del 2013, curatore e critico d’arte tra i più originali che conosce a fondo gli Stati Uniti perché là vive con la moglie e critica Cecilia Alemani ed è direttore artistico del New Museum di New York e come della Fondazione Nicola Trussardi di Milano.
Gioni pronuncia quella frase a Tiscali Cultura alle Gallerie nazionali d’arte antica a Palazzo Barberini a Roma, all’apertura della mostra curata da lui e dalla direttrice del museo statale Flaminia Gennari Santori “Effetto notte: Nuovo realismo americano. Opere dalla collezione di Tony ed Elham Salamé”. Aperta fino al 14 luglio 2024, d’alto livello e ricca di suggestioni, la rassegna offre circa 150 opere di pittura e qualche scultura nelle dodici sale dello Spazio mostre al piano terra, in ambienti come l’Atrio Bernini o l’Atrio Borromini del piano nobile, nell’Appartamento del Settecento al secondo piano, in stanze con le esuberanti decorazioni del rococò. In connessione con la storia del museo in un paio di sale i curatori hanno disposto i dipinti alla maniera delle antiche quadrerie, con tante opere sulla parete, rendendo la visione forse più faticosa o più distratta per il pubblico odierno che non è abituato a quei vecchi schemi pur se la visione d’insieme è coerente con le sale antiche nonostante le epoche diverse.
La mostra include autori come la magistrale Cindy Sherman in due foto in cui si camuffa in altrettante donne con il suo volto, un nome di punta della cultura afroamericana come la pungente e profonda Kara Walker, poi Cecily Brown, Henry Taylor con un dipinto sulle ferite del colonialismo e dello schiavismo esposto alla Biennale arte di Venezia del 2019 curata dal nordamericano Ralph Rugoff, forme astratte perché il “realismo”, qui, non è strettamente legato al figurativo.
A poca distanza, Caravaggio cambia allestimento
A pochi metri di distanza, Palazzo Barberini fino al 30 giugno ospita nell’Ala sud del piano nobile la mostra “Raffaello, Tiziano, Rubens. Capolavori dalla Galleria Borghese a Palazzo Barberini”, con Antonello da Messina, Botticelli, Raffaello, Tiziano e molti altri. Nelle sale del percorso usuale Flaminia Gennari Santori ha cambiato l’allestimento dei Caravaggio: nella sala 26 il “Narciso” ora è davanti al “San Francesco in meditazione”, nella sala 27 “Giuditta e Oloferne” ha uno spazio diverso e ha di fronte, fino al 15 luglio, il “San Giovanni Battista” abitualmente conservato alla Galleria Corsini in oltre Tevere. Adesso sarà il caso di tornare all’America vista da Gioni.
Gioni, descrivendo questa mostra a Palazzo Barberini ha accennato al problema del razzismo. In che modo lo troviamo nella rassegna?
Ci sono diverse risposte. La collezione di Aïshti Foundation, forse perché ha 25 anni, forse perché nasce in Libano e forse perché è di un collezionista straniero, ha registrato il momento sismico della questione razziale in America incorporando tantissimi artisti di colore in una misura forse anche superiore rispetto a collezioni più statiche nei musei americani. Poi questa è una mutazione storica, grazie al cielo: la cultura americana negli ultimi dieci anni e poi con più evidenza dal 2020 ha cominciato a fare i conti con quella storia come forse non succedeva dagli anni ’60, dal periodo della lotta dei diritti civili.
Chi tra gli artisti presenti a Palazzo Barberini tratta la questione del razzismo?
È un tema che molti artisti di colore affrontano: da Kara Walker a Henry Taylor, da Mark Bradford a Faith Ringgold, una pioniera dagli anni ’60, forse la più anziana tra quelli nella mostra. È sintomatico e molto bello che sia in questa collezione.
Il titolo è “Realismo americano”: come si pongono di fronte alla realtà questi artisti?
Anche la questione dell’impegno e della realtà qui è interessante. Molti artisti, forse i più giovani, hanno un rapporto cronicistico con il reale, affrontano ad esempio la questione razziale che è di bruciante attualità. Alcuni, che cominciano negli anni ’60, paradossalmente non vanno nella direzione della cronaca ma dell’astrazione per rivendicare la libertà di essere artisti senza essere illustratori che poi è la questione tutta italiana degli anni ’50 quando tra Guttuso e il gruppo Forma 1 si litigava.
Lei vive molto in America: quanto è determinante ora la questione razziale, anche a livello politico e alle prossime elezioni?
Non ho risposte. Dal punto di vista dell’arte è certo una rivoluzione salutare. L’astrazione dell’arte moderna si è illusa per tutta la vita di essere oggettiva. Abbiamo tutti studiato che la biografia non conta, contano l’opera, la forma, poi credo sia stato uno choc fondamentale scoprire che anche la presunta oggettività e formalità dell’astrazione nascondevano in realtà pregiudizi o preferenze.
Pregiudizi che si manifestavano anche nei confronti delle donne, tanto più se nere.
Sì, certo, come Kara Walker. Spero che dalla mostra emerga un’idea di realismo come processo di scoperta. Per questo contestualizza una grande esplosione di punti di vista che ha investito la cultura americana perché, sia da destra che da sinistra, e non credo sia paragonabile a nulla che sia successo qui, c’è stata una sorta di erosione dell’autorità, della cultura e della verità. È successo in parte anche con la follia di Trump che ancora sostiene di aver vinto le elezioni contro qualsiasi evidenza empirica.
Con l’assalto al Campidoglio a Washington del 6 gennaio 2021 il tycoon ed ex presidente ha quasi favorito un golpe.
Sì, ma quel processo è anche avvenuto da parte della sinistra, se vogliamo: forse, di fronte a Trump che logorava le istituzioni, ha capito che la sua responsabilità era anche una critica di qualsiasi autorità. Questa esplosione dei punti di vista si collega anche a quanto accade con i mezzi di informazione in cui magari l’autorità di una testata giornalistica è meno forte di 20-30 anni fa perché chiunque ha un cellulare, chiunque ha il mezzo di comunicazione. La cultura del digitale ormai non è solo esplosione dei punti di vista, è anche falsità con i deep fake, con l’intelligenza artificiale.
Spesso si accede ai quotidiani online e all’informazione tramite Faceboook e altri social.
Sì, appunto. Sono strumenti di ricreazione e disinformazione. Non sono americano ma vivo e ho vissuto lì e vedo un fenomeno nuovo, una sorta di paranoia costante. In Italia ascoltiamo le notizie ogni ora; per gli americani credo sia stata un’esperienza recente, prima non succedeva. Invece adesso ogni ora l’intensificarsi dell’informazione diventa anche paranoia, dubbio, cospirazione.