“Morì travolta da un carro armato. Gerda Taro, grande fotografa di guerra: il suo compagno Capa l'offuscò”
In questa intervista ci descrive l'importanza della fotoreporter Monica Poggi, co-curatrice di una mostra sulla coppia di fotoreporter al via al Centro Camera di Torino per San Valentino. La regista Alina Marazzi gira in film su Gerda dal libro di Helena Janeczek
Amore, guerra contro fascismo e nazismo, fotografia: intorno a queste dimensioni del vivere si può leggere la vicenda della fotografa Gerda Taro, all’anagrafe Gerta Pohorylle, nata a Stoccarda nel 1911 in una famiglia ebrea di origine polacca e morta ad appena 26 anni durante la Guerra civile di Spagna, nel 1937, quando cadde da un camion in ritirata e fu travolta da un carro armato. Era in terra spagnola, come fotografa di guerra e dalla parte dei repubblicani, insieme al suo compagno e fotografo Robert Capa, che a sua volta morirà raccontando una guerra quando saltò in aria su una mina in Vietnam nel 1954. Si erano conosciuti e amati in una Parigi effervescente tra ideali politici progressisti e i movimenti delle Avanguardie artistiche per gettarsi nel conflitto spagnolo e sostenere la causa repubblicana fino al tragico epilogo.
“Robert Capa e Gerda Taro: la fotografia, l’amore, la guerra” è la mostra con 120 scatti con cui il Centro Camera di Torino curata dal suo direttore artistico Walter Guadagnini e da Monica Poggi ricostruisce quella storia di passione amorosa e civile focalizzandosi in buona parte sull’attività rischiosissima di fotoreporter nella guerra spagnola. Non a caso la rassegna apre per San Valentino, il 14 febbraio, per chiudersi il 2 giugno, festa della nostra Repubblica. Ne parla a Tiscali Cultura Monica Poggi, curatrice del centro torinese di fotografia. Prima però diamo notizia di due iniziative.
Giovedì 15 febbraio, alle 18.30, al Centro Guadagnini dialoga con Helena Janeczek, autrice della biografia romanzata su Gerda Taro “La ragazza con la Leica” con cui ha vinto il Premio Strega nel 2018 del Premio Strega pubblicato da Guanda (clicca qui per la scheda editoriale). Dal libro sta girando un film tuttora in lavorazione una regista autrice di documentari accurati e profondi, Alina Marazzi.
Poggi, potremmo indicare nella fotografia, nell’amore, nella lotta politica contro i fascismi i perni del rapporto tra Gerda Taro e Robert Capa?
Sì, assolutamente. Gerda Taro muore giovanissima, non c’è evoluzione nel loro legame che nasce anche attraverso la fotografia. Robert Capa iniziò a insegnarle a fotografare e la conquista. Iniziano a lavorare insieme alla pari, come autori sono estremamente schierati dal punto di vista politico per riviste di sinistra che fioriscono in particolare in Europa. Poi il fulcro della mostra si sviluppa intorno alla Guerra civile spagnola, agli anni del 1936-37 fino alla morte di lei su un campo di battaglia, una guerra alla quale non solo partecipano come giornalisti, costruendo le basi del fotogiornalismo, ma anche da un punto di vista ideologico. Gerda Taro è particolarmente impegnata: sposa la causa in maniera più viscerale anche prima della guerra, era stata incarcerata in Germania per le sue idee anzi naziste, è un aspetto centrale della sua biografia
Cosa è la “valigia messicana” di cui parla la nota stampa? Cosa ha permesso di scoprire?
La “valigia messicana” è il culmine di una storia complessissima e divertente relativa agli oggetti fotografici. Noi oggi intendiamo la fotografia come immagini un po’ smaterializzate ma qui si parla di negativi, di stampe che durante la Guerra civile spagnola erano un chiaro elemento di vicinanza alla causa repubblicana. Dopo, quando i nazisti occupano la Francia, diventeranno materiale pericolosissimo da custodire e inizia un percorso complesso di dispersione con immagini che vengono trovate a più riprese. Quello messicano è il ritrovamento più importante. La valigia messicana in realtà si tratta di tre scatole trovate a Città del Messico a fine anni ‘90 e a cui è stato possibile accedere nel 2007 dopo una lunghissima contrattazione tra chi li aveva trovate e Cornell Capa, fratello di Robert, il quale si è occupato di ricercare questi materiali dispersi.
Nella mostra la raccontate?
In mostra avremo un focus su questa storia. La “valigia” conteneva 4.500 negativi. Fondamentale in questo ritrovamento, oltre all’importanza storica e materiale, è anche che a ogni negativo veniva associato l’autore o l’autrice degli scatti. Molte immagini attribuite a Capa vengono ora attribuite e restituite a Gerda Taro e alla centralità del suo lavoro. Nella “valigia” c’erano foto di Robert Capa, di Edward David Seymour, di Fred Stein che era un amico di Gerda Taro e prestava loro la camera oscura, è sua l’immagine della coppia. E contiene negativi di foto di Gerda, non della guerra civile.
In alcuni casi ci sono state discussioni su chi aveva scattato alcune foto, se Gerda o Robert.
Sì, se ne è parlato anche perché su riviste erano state pubblicate immagini senza firma. La foto del miliziano colpito a morte ha reso Capa un mito, così il lavoro di Gerda Taro è rimasto offuscato dalla fama del compagno e probabilmente anche dall’essere donna in una società in cui l’autorialità femminile era secondaria. A lei gli editori non concedevano i “pass” per andare al fronte. Con il ritrovamento della valigia si sono chiariti molti dubbi mentre altri si sono aperti: è una storia che contiene tante informazioni anche su quegli anni e su a chi appartengono quei negativi. Inoltre Gerda Taro è morta presto, non si è costruita una carriera oltre la Guerra civile spagnola. La nostra esposizione si basa su una parità e non una secondarietà del lavoro di lei.
Cosa distingue gli scatti di Gerda Taro da quelli di Robert Capa e viceversa?
Entrambi hanno contribuito a far nascere l’idea del fotogiornalismo dal fronte, del giornalista che arriva al limite massimo del campo di battaglia con grande coraggio. La differenza si ha forse nelle foto più posate. Gerda ha un’impostazione propagandistica come immaginario mentre Capa ha sempre e comunque una freschezza e agilità nello scatto. Ma le immagini di lei dal punto di vista compositivo sono più complesse, si riferiscono a una fotografia che si sviluppa in Germania nei primi anni del ‘900 e che potrà aver visto: abitava a Stoccarda dove nel 1929 la mostra modernista “Film und Foto” contribuì a cambiare la logica della fotografia e lei deve aver assimilato quell’ottica. Un’altra differenza per l’attribuzione è dovuta anche alle macchine fotografiche. Gerda tendenzialmente utilizzava una Rolleflex di medio formato 6x6 mentre Capa utilizzava una Leica. In realtà se le scambiavano spesso per cui il ragionamento salta ma è un’informazione utile per attribuire a uno o all’altro un’immagine.
Gerda Taro aveva consapevolezza del suo ruolo di donna fotografa? In Nord America negli anni ’30 c’era maggior coscienza, pensiamo a un nome come Dorothea Lange.
Gerda Taro lavora con personaggi femminili centrali nella fotografia che poi la storia ha cancellato. Come Maria Eisner che fu tra i fondatori dell’agenzia Magnum, era stata fondamentale, a Parigi aveva un’agenzia fotografica. Non so se Gerda avesse consapevolezza del suo ruolo in quanto prima reporter della storia, certo aveva consapevolezza di come si vendevano e diffondevano le foto in tutto il sistema intorno all’informazione. E poi lei ribalta stereotipi con la concezione che vedeva le donne in un’ottica “addolcita” come se le donne trattassero solo temi più delicati, familiari, edulcorati. Invece lei va con il sorriso in un obitorio a Valencia e fotografa i cadaveri dopo un bombardamento fascista sulla città: lì si capisce come crolli la differenza che si vuole attribuire ad autrici donne rispetto alla forza maschile, qui crolla un’idea di autorialità maschile più vicina alle situazioni di conflitto, infatti lei andava con le truppe in battaglia, tanto che morì durante una ritirata: il suo lavoro è stato da un punto di vista fotografico rilevante e importante anche per ribaltare questi stereotipi.
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