Donghi, il pittore del “realismo magico” tra Vermeer e Mussolini in nero sul cavallo bianco
Palazzo Merulana a Roma propone 34 dipinti dal 1922 all’immediato dopoguerra di un artista lontano dalla tempesta che guardava ad Antonello da Messina, Bronzino e altri maestri. Il problematico ritratto del dittatore fascista
È un pittore per certi versi tanto taciturno quanto enigmatico, Antonio Donghi. Romano nato nel 1897 e morto nel 1963, è un pittore di quadri che nella sua stagione migliore, di altissima qualità pittorica, raffigura mondi interiori di quiete apparente, cristallini, da cui espelle le ansie del tempo e i tormenti della storia. La quiete lontano dalla tempesta in una pittura in cui si avvertono lezioni di maestri come Antonello da Messina, Piero della Francesca o Vermeer per l’immobilità ieratica delle sue figure, per l’atmosfera sospesa. Una pittura in apparenza distaccata dal suo presente salvo l’assai problematico ritratto equestre del dittatore fascista Mussolini.
Personaggi cristallizzati
Con i suoi personaggi cristallizzati in un momento, definito esponente del “realismo magico” che vide, in letteratura, scrivere autori sopraffini come Massimo Bontempelli, Donghi ha una mostra fino al 26 maggio a Palazzo Merulana a Roma, lungo l’omonima via. “Antonio Donghi. La magia del silenzio”, si intitola. Curata da Fabio Benzi, la rassegna raccoglie al secondo piano 34 dipinti nell’edificio sede della Fondazione Elena e Claudio Cerasi, con relativa collezione al primo piano focalizzata in gran parte proprio sull’arte italiana tra le due guerre, gestito da CoopCulture.
Tra Botticelli, Bronzino e Vermeer
La rassegna attesta un’arte che parla di arte, con riferimenti ad autori come Botticelli, ai volti del Bronzino, alle atmosfere con nature morte di Baschenis, al poetico Zurbaran, all’ineffabile Vermeer, scrive in catalogo il curatore. L’artista crea una pittura che in apparenza rasserena, tranquillizza, non fosse che tanta raggelata tranquillità cela qualcosa come una paura, come se le donne e gli uomini borghesi ritratti in “Gita in barca” o i giocolieri circensi avessero rimosso ogni inquietudine o espliciti moti d’affetto, senza affrontarli, come se cercassero semplicemente di raggelarli, chissà se riuscendovi o meno.
L’improvvisa svolta del 1922
Benzi è professore all’università “Gabriele D’Annunzio” di Chieti-Pescara, è specialista di pittura italiana moderna e lo si avverte nella selezione accurata e sapiente delle opere. La mostra, contenuta nelle dimensioni, documenta gli inizi di Donghi con tre dipinti su scorci romani nel verde post-tardo impressionisti che dicono poco o nulla, artisticamente insignificanti come fa notare con coerenza il curatore stesso. All’improvviso, nel 1922, Donghi compie uno scarto, un salto, avvia quella pittura fatta di un clima sospeso, di pochi elementi, di essenzialità che gli riuscirà al meglio nelle figure e lo renderà un pittore riservato e di prima fila nella stagione romana dagli anni ’20 e nel decennio successivo, nel filone del “ritorno all’ordine” ovvero a un figurativo radicato nella tradizione dopo l’esplosione e l’esuberanza delle avanguardie.
Benzi si ferma intorno al 1946 perché, spiega nei pannelli, nel dopoguerra Donghi perderà quella “tensione formale” che lo rende così singolare, significativo, affine e seppur lontano a certe atmosfere di cui la collezione Cerasi conserva al primo piano qualche esempio come un magnifico “Lo studio” del 1934 di Felice Casorati o il “Ballo sul fiume” del 1936 del Giuseppe Capogrossi prima maniera, giusto per dire delle temperie del tempo.
Il duce a cavallo: “Omaggio antiretorico o tributo a una tranquillità politica”?
Quei due anni, il 1934 e il 1936, ci portano dritti a una tela assai problematica in mostra: il celebrativo “Ritratto equestre del duce”, del 1937 con il dittatore in una divisa di un nero profondo ed elmetto in sella a un cavallo bianco.
Lo spunto vero, annota Benzi in catalogo, è il “destriero” su un paesaggio collinare. In quel dipinto “atipico”, scrive il critico, l’artista guarda alla pittura di Giulio Romano mentre il capo del fascismo (con tanti crimini già sul groppone, inclusi quelli perpetrati in Africa orientale, aggiungiamo noi) diviene una “figura improbabile, meno captante del cavallo, su cui è fondato tutto l’interesse pittorico”. Aggiunge lo studioso in nota ripresa nel pannello introduttivo all’esposizione: “Unico esempio del rapporto diretto di Donghi col regime, la sua valenza è difficilmente decrittabile. Omaggio, nel suo stile antiretorico, al Duce? Oppure tributo pagato a una tranquillità politica” dopo aver vinto un posto da insegnante nel 1936?
Piaggeria o strategia per evitare guai?
Detto in altro modo: fu piaggeria verso l’uomo del potere oppure uno strumento per non patire vessazioni o ritorsioni dal regime? “Difficile dirlo. Tuttavia la sua interpretazione di Mussolini non ebbe molto successo”, scrive Benzi, la giuria del concorso per un ritratto equestre del dittatore fascista e “la critica dell’epoca furono piuttosto severe”. Chissà cosa direbbe chi oggi ha radici in un partito che aveva radici dichiarate in quel regime, magari governa e non si professa “antifascista”. Fascisti come quelli radunatisi di recente ad Acca Larentia potrebbero prendere l'esposizione della tela come un riconoscimento? Prenderebbero un granchio: basta leggere il pannello all’ingresso.
“Antonio Donghi. La magia del silenzio” raccoglie dipinti dalla Galleria comunale d’arte moderna di Roma (è in via Crispi), dalla Galleria nazionale d’arte moderna, raccolte pubbliche imprescindibili per conoscere la storia artistica di quel ‘900, dalla Banca d’Italia, dalla collezione UniCredit (già della Banca di Roma), dalla Fondazione Cerasi e qualche altra fonte. La mostra è prodotta da CoopCulture.
Il catalogo pubblicato da Palombi editori è ricco di foto di pittori di riferimento quali Botticelli, Carpaccio, Holbein e altri insieme a quelli già citati. Stimolante e fitto di confronti anche il saggio di Angelica Cilli sul rapporto tra il pittore e il cinema.
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