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Damien Hirst, quando l’arte diventa un fantasy tra miti, mostri e Caravaggio

Le figure mitologiche e mostruose dell’artista britannico tra l'arte antica nella Galleria Borghese di Roma sono come un racconto che mescola miti e invenzione

Stefano Milianidi Stefano Miliani   

La dea Kali dalle molte braccia e nuda sfida un’enorme idra che per sua natura uccide e ha molte teste innestate su un corpo squamoso. La scultura di un’audace arciera con incrostazioni e coralli che le si sono depositati in secoli sotto al mare mira al soffitto affrescato di Villa Borghese a Roma. Cosa ci fanno queste presenze in quelle sale antiche? Nel palazzo romano che il cardinale Scipione Borghese nel primo ‘600 e i suoi discendenti elessero a santuario di capolavori di Raffaello, Tiziano, Caravaggio, Bernini e Canova, tra marmi e memorie dell’antichità, l’artista britannico Damien Hirst mette in scena fino al 7 novembre una versione aggiornata e adattata del suo “kolossal” presentato in forma più vasta nel 2017 a Palazzo Grassi e al Palazzo della Dogana a Venezia.

In questi eclettici palinsesti esporre sculture si fa narrazione che miscela miti di più culture, fantasia sfrenata, sincretismi e modernità. Un frullatore di riferimenti a più civiltà in chiave spettacolare tra opere  spezzate e scontri mortali tra forze del bene e forze del male: volendo potrebbero essere gli ingredienti di un film o di un romanzo “fantasy” quando con Hirst il “fantasy” prende le forme della cultura visiva dove il racconto è parte dell’opera per cui non vale solo tutto quello che si vede, vale anche quello che immaginiamo guardando.

Dal “naufragio” a Venezia alla sontuosa Villa Borghese

Uno degli artisti di punta della nuova onda britannica lanciata negli anni ’90 da Charles Saatchi, Hirst stavolta intitola il suo incontro ravvicinato con i maestri dell’arte italiana dal ‘500 al ‘700 e con la sontuosa architettura della villa “Archaelogy Now”. L’impaginazione nel museo ora diretto da Francesca Cappelletti vede come curatori l’ex direttrice del museo statale Anna Coliva e Mario Codognato. Se affiancare arte contemporanea e antica è pratica comune da tempo, la mostra romana si inserisce nella ricerca che Hirst conduce da una ventina d’anni e che debuttò in laguna chiamandola “Treasures from the Wreck of the Unbelievable”, ovvero tesori dal naufragio della Unbelievable. Lì una massiccia statua alta diciotto metri occupava tutta la corte di Palazzo Grassi fino al soffitto, si incontravano guerriere urlanti, “mostri”, tutti coperti di concrezioni marine, coralli, spugne: erano pezzi sopravvissuti di un naufragio immaginario di una nave romana di duemila anni fa carica di tesori diretti verso oriente e testimoni di un recupero colossale nell’oceano narrato con video e testi come se quel naufragio e quel recupero fossero realmente avvenuti. Sembrava un grande gioco che,a detta di chi scrive, non inquietava come altre opere di Hirst hanno saputo inquietare.

Lo squalo, il teschio di diamanti e la morte

L’artista assurse a fama planetaria per aver messo in una teca un grosso squalo in formaldeide che obbligava a pensare alla morte e alla sua rimozione, al pericolo, alla ferocia. Il titolo era già in nuce un saggio: “The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living”, vale a dire l’impossibilità di concepire la morte quando siamo vivi. Correva il 1991. Il “brit artist” d’altronde gioca spesso e volentieri con l’evocazione del lutto e della decomposizione. Che Hirst abbia un senso barocco della morte, dove tramuta la fine e il terrore del baratro in uno spettacolo per stupire e quindi colmare quell’angoscia, lo dimostrò esponendo un cranio tempestato di ottomila seicento un diamanti (8.601, avete letto bene) nello Studiolo di Francesco I de’ Medici a Palazzo Vecchio a Firenze nel 2010-11, abbagliante memento mori nel buio della sala e al contempo esplicito e gigantesco investimento finanziario suo e di altri galleristi.

Il suo Cerbero abbaia al Bernini 

Con le sculture collocate tra le sfarzose pareti e le statue policrome e i pavimenti marmorei della Galleria Borghese l’artista in apparenza instaura un dialogo tutto interno alla storia dell’arte, in realtà impagina un nuovo capitolo della sua narrazione di opere “recuperate” da un disastro marino dove i rimandi ai miti orientali (come la dea Kali) si intrecciano alla mitologia classica. La Galleria Borghese, organismo estremamente delicato, peraltro si presta alle rivisitazioni di Hirst. Si presta quando il suo Cerbero, il mastino a tre teste a guardia del mondo dei morti, latra nella sala in direzione del gruppo del Ratto di Proserpina con cui il Bernini raffigurò, in un marmo che pare carne viva, la figlia della dea mentre si divincola invano da Plutone che ne farà la propria sposa e la trascinerà nei cupi inferi. Come in molte narrazioni “fantasy” di film, videogiochi e romanzi dove spesso si intrecciano un passato a nostra somiglianza, anche il 56enne artista narra e mescola epoche, miti, allusioni, storie, culture: esempio forse calzante di una civiltà in cerca di sé stessa che fa dell’ibridazione la propria cifra e lo rende spettacolo.  

Il catalogo della mostra è pubblicato da Marsilio in versione italiana e inglese.

 

Stefano Milianidi Stefano Miliani   
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