La Biennale arte 2022: stavolta vincono le donne, le minoranze, i sogni
Reportage con ampia fotogallery da Venezia. Tra alti e bassi, Cecilia Alemani nella sua mostra "Il latte dei sogni" racconta un mondo pieno di ingiustizie ma che vuole cambiare. Il Padiglione Italia inquadra un Paese del lavoro perduto. L'Ucraina c'è anche con testimonianze di guerra. Gli altri padiglioni
All’Arsenale di Venezia una dea africana in bronzo, priva di occhi, accoglie con potenza e mistero chi con speranza entra alla 59esima Biennale dell’arte. L’ha fusa Simone Leigh, scultrice afroamericana che al contempo rappresenta gli Stati Uniti nel Paglione ai Giardini con un racconto di opere che rimanda alla diaspora dal continente nero, allo schiavismo, alla forza delle donne. Quel busto gigante è l’incipit della mostra dell’edizione 2022 “Il latte dei sogni – The Milk of Dreams” curata da Cecilia Alemani la quale ha ripreso il titolo da un libro per bambini della pittrice surrealista Leonora Carrington. Attorniano quella dea bruna collografie che la cubana Belkis Ayon popola di figure magiche ed enigmatiche.
Come aveva promesso la curatrice italiana che lavora a New York, per la prima volta le artiste prevalgono di gran lunga sugli artisti, la divisione binaria dei generi sessuali non è rigida, le opere rimandano spesso a conoscenze fondate su credenze, rituali, figure ibride, leggende, si avverte che il Surrealismo nato nel 1924 a Parigi ha generato figlie e figli in più continenti.
L’occidente cerca di riparare ai torti commessi
Nelle due sedi della mostra, l’Arsenale appunto e il padiglione centrale ai Giardini, come in più Padiglioni nazionali, emergono spesso le voci degli oppressi. Se c’è un senso da ricavare tra i tanti possibili, alla Biennale 2022 vediamo la civiltà occidentale che cerca di riparare alle innumerevoli ingiustizie di cui è stata artefice: il razzismo, lo sfruttamento di terre e persone, il colonialismo, il mettere in secondo piano tante artiste perché donne. Vediamo pertanto una cultura che non è più il centro di tutto e ha la forza, o la necessità, di guardare i propri fantasmi: li guarda quando si affida a un potere legato al femminile (che non è esclusivo delle donne e non è quello politico), quando si connette all’immaginazione, alla terra, all’intimità, quando ascolta pensieri relegati ai margini. Varrà forse registrare che, nei giorni del 20 e 21 aprile, la presenza di persone afro o afroamericane era in percentuale decisamente superiori di edizioni precedenti, benché la maggioranza resti bianca.
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All’Arsenale le opere sono più incisive
Questo è il filo tirato da Cecilia Alemani. La qualità del suo lavoro? Alta soprattutto all’Arsenale, dove i colori, le forme e le immagini sanno sorprendere meglio, sanno incuriosire e spiazzare spesso, dove una “gigantessa” multicolore della storica figura di Niki de Saint Phalle emana allegria e, pochi passi più in là, la colombiana Delcy Morelos grazie all’austerità di enormi blocchi di terra dai ricchi profumi evita un esotismo a buon mercato. Chissà perché, ai Giardini invece la potenza visiva nel complesso si diluisce. Pur se qui le pulsioni oniriche hanno maggior risalto, il discorso generale sembra più freddo, meno avvolgente.
Le opere degli uomini erano sempre capolavori?
Però è bene constatare un fatto: se Cecilia Alemani poteva tranquillamente rinunciare ad alcuni disegni troppo didascalici, chi dirà che qualche artista è presente perché donna allora dovrà avere l’onestà di riconoscere che la manifestazione nata a fine ‘800 non ha esposto solo opere di uomini bianchi che erano tutte capolavori. Anzi. Di contrappasso, una artista pur infinitamente più brava aveva infinite possibilità in meno di arrivare in laguna. Manco a pensarlo se era una donna nera: allora poteva lasciare ogni speranza di entrare nel grande giro ufficiale dell’arte.
Cecilia Alemani ha sparigliato le carte (come promesso)
Beninteso: Venezia già da diverse edizioni aveva intaccato un simile schema culturale e politico (la geniale afroamericana Kara Walker è passata per questi lidi nel 2007, il geniale nigeriano Okwui Enwezor diresse la mostra del 2015), solo che adesso con Cecilia Alemani ha drasticamente sparigliato le carte. Lei ha cambiato il tavolo di gioco incoronando talvolta il sogno, talaltra affrontando l’incubo, come nel video con gli animali-umani (o viceversa) con o privati di coda di Marianne Simnett: l’effetto vuole essere talvolta straniante, talaltra catartico. Non sempre riesce. Diversi padiglioni nazionali hanno seguito un filone analogo. Tracciamone alcuni. Con una curiosità: tranne che in padiglioni come quello venezuelano (e magari in altri non visti) i riferimenti alla pandemia sembrano assenti.
Disparità e bambini dai Paesi nordici al Sud Africa
Ai Giardini, nel padiglione dei Paesi nordici di Norvegia, Svezia e Finlandia il pittore sámi (per intendersi, in italiano usiamo il termine improprio “lappone”) Anders Sunna osteggia violenze del potere, soprusi, ceffi fascistoidi e repressione con visioni tra l’incubo e il sogno. Sempre ai Giardini la Polonia, che pure con i migranti asiatici ai suoi confini è stata di estrema durezza e ingiustizia, con Malgorazata Mirga-Tas rilegge con un ciclo di patchwork la storia e le peregrinazioni dei rom, la minoranza oggi meno accettata in Europa.
Nel padiglione belga Francis Alÿs ha ripreso con tocco lieve e poetico in video bambini giocare nella Svizzera innevata, un piccolo infilarsi in un copertone su un monte di scorie di cobalto in Congo, un gruppetto che finge di spararsi con la luce degli specchietti in Messico o tre bambine che saltano la corda in una metropoli cinese. Francis Alÿs commuove e lascia comprendere sia l’inventiva incredibile dei piccoli sia le stratosferiche disparità del pianeta. Disparità che ritornano con il Sud Africa all’Arsenale dove, fra identità sfrangiate, tradizioni e condizioni psichiche Phumulani Ntuli fa avvertire il peso di ferite non ancora rimarginate in una dimensione fantastica, onirica.
Il Padiglione ucraino è meditativo, la piazza sanguina
A proposito di ferite tragicamente aperte, la guerra in Ucraina scatenata dall’invasione della Russia di Putin c’è. Con il suo padiglione organizzato in modo avventuroso e coraggioso, con pezzi dell’opera di Pavlo Makov portati letteralmente via dai bombardamenti sulla città di Kharkiv in auto dalla curatrice Maria Lanko. Il risultato è la “Fontana dell’esaurimento”, un grande triangolo dove da una serie di imbuti cola acqua fino a un piccolo bacino: non rimanda alla guerra, è un’opera con variazioni concepita già negli anni ’90, non è cronaca, e l’effetto è poetico, è meditativo.
La violenza bellica piuttosto irrompe nell’installazione organizzata dalla Biennale stessa ai Giardini: in una “Piazza Ucraina” su un tappeto di frammenti di legno un mucchio di sacchi bianchi protegge un ipotetico monumento dai missili mentre su assi di legno sono affisse immagini di furore o paura lanciate sui social da artiste/i ucraine/i dopo l’aggressione del dittatore di Mosca. La ferita sanguina.
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Padiglione Italia: il disastro del lavoro
Infine, a proposito di ferite, il Padiglione Italia organizzato dalla Direzione generale creatività contemporanea del Ministero della cultura, curato da Eugenio Viola, si trova in fondo all’Arsenale, è alquanto singolare e carico di un fascino triste. Con il titolo “Storia della notte e destino delle comete” un solo artista, Gian Maria Tosatti, ha montato spazi industriali abbandonati, macchinari arrugginiti, un’azienda tessile con macchine da cucire, una triste camera anni ’60 in un’atmosfera mesta.
È un Paese svuotato, l’industria e il tessuto operaio si sono sfaldati, il lavoro non si rigenera. L’artista, in qualche intervista, ha parlato di ottimismo. Mah. Forse lo pensa perché nell’ultimo ambiente minuscoli lumicini compaiono nel buio pesto, spariscono e ritornano. Luci nella notte? Sì, in una notte dove noi umani non esistiamo più affinché quelle luci, se sono lucciole in amore, possano sopravvivere e riprodursi. Consapevole o meno che sia, con quel vuoto industriale il quarantaduenne Tosatti ha saputo cogliere un Paese vuoto di prospettive, uno scenario cupo.
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La 59esima Biennale Arte è aperta dal 23 aprile al 27 novembre. I biglietti interi costano 25,50 euro, ci sono molte riduzioni. L’ente di Venezia è presieduto da Roberto Ciccuto.