Vaticano coraggioso: entra nelle carceri femminili. Temi giusti ma troppe opere naif nella Biennale di Pedrosa. Le foto
Colonialismo, queer, femminismo, razzismo i filoni esposti ai Giardini e all’Arsenale a Venezia con artisti sconosciuti al mondo dell’arte. Un taglio antropologico con un influsso benefico su vari paesi. Raffinato eppure “freddo” il Padiglione Italia. Toccanti Cattelan, artiste e artisti in dialogo con le detenute alla Giudecca per la Santa Sede
Con una spiccata predisposizione verso la pittura-pittura, verso i colori e gli artisti dei vari sud del mondo, di “indigeni” e artisti che mai avrebbero sognato di partecipare alla Biennale arte di Venezia, con temi femministi e istanze queer che punteggiano il percorso insieme a ripetuti affondi contro il colonialismo, la 60esima mostra firmata per questo 2024 dal brasiliano Adriano Pedrosa ha preso il largo. Da sabato 20 aprile fino al 24 novembre affronta il confronto del pubblico ai Giardini e all’Arsenale con un titolo poetico che è già un programma: “Stranieri ovunque – Foreigners Everywhere”. Cedrosa lo ha esplicitamente ripreso dal duo franco-italiano Claire Fontaine il quale lo aveva a sua volta preso da un proclama di attivisti: il titolo in una loro scritta in neon rosso campeggia tanto all’ingresso del Padiglione centrale ai Giardini come all’Arsenale.
Principi giustissimi, troppi i lavori didascalici e ingenui
La mostra “Stranieri ovunque” ha principi giustissimi, eppure troppi lavori sono didascalici, naif, ingenui. In sintesi qual è l’esito? Multiforme o duplice, per sintetizzare. Dall’Amazzonia ai maori, dagli aborigeni all’Africa, si assiste a una sorta di risarcimento culturale verso culture ed etnie maltrattate e sfruttate da chi ha più potere da decenni o secoli, vale a dire l’Occidente. Oltre 330 gli artisti, quasi tutti sconosciuti all’universo dell’arte ufficiale e non ufficiale. Eppure Pedrosa ha selezionato troppi lavori di stile naif: sono buon artigianato, raffigurazioni semplici o rivisitazioni di pratiche locali adeguate a magari incantare i turisti e ammaliare gli antropologi. Forse rassicurano chi cerca un’arte figurativa senza complicazioni, molti dipinti semplificano troppo per rappresentare inquietudini, rabbia e speranze o riflessioni profonde come può suggerire la Biennale.
L’effetto benefico di Pedrosa sui Padiglioni nazionali
D’altro canto, l’attenzione di Pedrosa verso chi è stato oppresso, discriminato, martoriato, verso i diritti di donne e realtà economicamente e politicamente marginali, ha influito con forza e bene su numerosi padiglioni nazionali i quali ne hanno seguito il filo. Il direttore brasiliano ha avuto pertanto un effetto dirompente, benefico, spingendo curatrici e curatori a selezionare opere di alta e a volte altissima qualità, almeno in numerosi dei padiglioni che il vostro cronista ha potuto vedere in due giorni.
Colonialismo, diritti queer e indigeni: temi potenti nelle sedi estere
Su temi come colonialismo, razzismo, diritti di gay e donne calpestati, sul sentirsi “stranieri” perfino a casa propria, numerose e numerosi artiste e artisti, talvolta non binari, hanno generato nei padiglioni nazionali visioni stratificate, complesse, in grado di entrare nell’animo, di non restare su un piano razionale, del contenuto, della dichiarazione per quanto giusta eppure alla fine “fredda”. Il culmine è il Padiglione del Vaticano con più opere installate dentro il carcere femminile nell’isola della Giudecca creato insieme al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria – Dap del Ministero della giustizia. In sintonia con Pedrosa, ispirato al pontificato di Papa Francesco, è un intervento magistrale, toccante, commovente sui diritti umani e gli ultimi, anzi le ultime: ne parliamo sotto.
Padiglione Italia: meditativo, emotivamente freddo
Il Padiglione Italia, in fondo all’Arsenale alle Tese delle Vergini davanti alla Darsena grande, è lo spazio del Ministero della cultura attraverso la Direzione generale creatività contemporanea. Vede Luca Cerizza come curatore e un unico artista (com’era accaduto nel 2022 con Gian Maria Tosatti), Massimo Bartolini, sostenuto nelle parti sonore dalle giovani compositrici Caterina Barbieri e Kali Malone e dal compositore statunitense Gavin Bryars insieme al figlio Yuri Bryars. Titolo “Due Qui / To Hear”.
Più che vedere, serve ascoltare: negli enormi capannoni sonorità in apparenza sulla scia del minimalismo e altre forme invitano a meditare, a riflettere, a prenderla con quiete, calma. Nella prima sala una piccola scultura di un “Bodhisattva Pensieroso, figura tipica dell’iconografia buddista” poggia su una lunga base bianca. La seconda sala è piena di ponteggi, forse una memora dei ponteggi di città in ricostruzione come l’Aquila post terremoto, in cui si inserisce una vasca tonda dove acqua mista ad argilla si gonfia e sgonfia.
Al sindaco di Venezia e vice presidente del cda della Biennale Luigi Brugnaro i ponteggi non sono piaciuti affatto. Il ministro della cultura Gennaro Sangiuliano ha risposto rivendicando la scelta di Bartolini. L’esito per il vostro cronista? Razionalmente raffinato, tuttavia freddo se si cerca anche un coinvolgimento emotivo.
Stranieri all’Arsenale: i “gioielli” dei video perturbanti, troppi dipinti naif
Torniamo alla mostra principale, “Stranieri ovunque”. All’Arsenale dapprima ci si imbatte in uno dei pochissimi noti, il nigeriano-britannico Yinka Shonibare con un suo astronauta in abito “africano” e sulle spalle una rete con beni terrestri come un migrante del futuro: intepretazione eccellente. Sul soffitto si dispiega un’installazione in fibra di uno dei vari collettivi invitati, il collettivo Mataaho dalla Nuova Zelanda. Tra i gioielli potremmo citare, sempre all’Arsenale, opere perturbanti come i video del filippino Joshua Serafin o del nicaraguense Elyla. In coda, nei casotti in fondo, dal programma Biennale College si fa notare la scultura mostruosa e transgender dell’italiana Question Mark.
Nella lunga architettura navale Pedrosa ha riservato uno spazio “storico” ad artisti di origine italiana che hanno lavorato all’estero e, quasi mai, sono tornati. Dall’architetta-artista Lina Bo Bardi al pittore astrattista Adriano Volpi, varie opere costituiscono delle scoperte, almeno per molti italiani, pur se in questo percorso a ritroso il curatore ha inserito figure storiche di un secolo fa come Gino Severini o Galileo Chini.
Stranieri ai Giardini: movimenti e colonialismo, risalta Nil Yalter
Ai Giardini la facciata del padiglione centrale diventa una autentica festa di colori e forme, non nelle implicazioni sul nostro presente e futuro: il murale variopinto del Movimento dos Artistas Huni Kuin - Mahku, dal Brasile vicino al Perù rievoca un mito su un grande alligatore e su noi umani che ne tradimmo la fiducia.
Leone d’oro alla carriera di quest’anno, insieme alla brasiliana nata in Italia Anna Maria Maiolino, la turca residente a Parigi Nil Yalter ha creato un’avvolgente sala con tenda al centro mentre sulle pareti tra tante foto di cronache familiari una scritta rossa in più lingue ci avverte che “l’esilio è un duro lavoro”. Efficace e potente.
Costituisce un altro capitolo di impostazione storica la sala dedicata all’astrazione storica nei sud del mondo, in primis America latina: documenta vie moderniste dell’arte astratta poco o mai viste in Italia o in Europa. Pedrosa dice quindi al mondo come il Modernismo non sia stato appannaggio del solo Occidente e abbia avuto voci autorevoli anche altrove. Frida Khalo e Diego Rivera, nella sala sul nucleo storico dei ritratti, sono tra i rarissimi artisti noti nella mostra di Pedrosa.
Emblematico lo spazio “The Museum of the Old Colony” su Portorico e gli Stati Uniti: racconta con chiarezza lo sfruttamento e il colonialismo statunitense sull’isola considerata quasi un cinquantunesimo Stato. A proposito di politica: chissà se susciterà polemiche la video installazione sull’amicizia tra Berlusconi e Gheddafi di Alessandra Ferrini, uno dei pochissimi nomi italiani ammessi, però incolla tanti visitatori allo schermo.
Il Vaticano nel carcere femminile: un’azione commovente e straordinaria
La Santa Sede torna alla Biennale arte con un’operazione di rara intensità, purché si sia disposti all’ascolto e all’incontro con le detenute e non si cerchi un approccio alla realtà carceraria come qualcosa di “esotico” o, peggio, con uno sguardo voyeuristico. Il titolo è “Con i miei occhi”, è alla Casa di reclusione femminile nell’isola della Giudecca, con partner e padrone di casa il Dap.
Un enorme murale sul muro esterno della prigione con due piedi sporchi come nei dipinti di Caravaggio e firmato da Maurizio Cattelan fa da efficace antifona. Varcate le mura, si incontrano le altre opere. Le firmano Bintou Dembélé, Simone Fattal, Claire Fontaine la cui scritta in neon blu nel cortile “Siamo con voi nella notte” accompagna le prigioniere anche nelle ore notturne, Sonia Gomes con 34 fili multicolori e multi-significato appesi al soffitto dell’ex chiesa delle Convertite sconsacrata, Corita Kent, Claire Tabouret; Marco Perego e l’attrice Zoe Saldana propongono un breve film con l'attrice vista in “Avatar” e le detenute, un film profondo, ricco di compassione e comprensione sulle detenute e i loro sentimenti, su chi esce di prigione lasciandovi affetti e chi entra in lacrime.
Papa Francesco in carcere, esordio di un pontefice alla Biennale
I curatori sono Chiara Parisi e Bruno Racine, l’ispiratore è il cardinale nonché eccelso poeta José Tolentino de Mendonça. Elemento fondante: un paio di detenute su una rosa di una ventina di volontarie accompagna noi visitatori, insieme alle agenti e agli agenti, nel percorso nell’ex convento. Nessuno di noi le può giudicare: chi siamo, per giudicare?, a che titolo?, per riprendere Papa Francesco. Dopo aver lavato i piedi delle detenute di Rebibbia nel Venerdì di Pasqua, non per caso il pontefice verrà in visita il 28 aprile e troverà i suoi principi fatti persona e arte insieme. Sarà il primo papa a metter piede alla Biennale di Venezia: difficile immaginare un esordio più umano e più significativo di così.
Da atei (come chi scrive, stavolta il personalismo è necessario), da agnostici, da fedeli di qualsiasi religione, questo incontro permette di cogliere la sacralità del vivere su questa Terra, il rispetto verso ognuno di noi, la bellezza del comprendere. Il Vaticano ha scelto di interpretare una visione davvero ampia, comprensiva, degna di un magistero, non ha chiesto opere dottrinali, merita gratitudine.
Va al contempo riconosciuto lo sforzo notevole dell’amministrazione penitenziaria, delle poliziotte e dei poliziotti penitenziari che devono scortare noi visitatori lungo tutto il percorso: è lavoro in più in un lavoro quotidiano gravoso dove il personale in tutta Italia scarseggia.
L’unica difficoltà? Trovare posto. L’ingresso è gratuito e viene per forza rigidamente contingentato nei turni e nei numeri, per gruppi in determinati orari e giorni della settimana: si entra solo prenotando almeno 48 ore prima sul sito di Coop culture.it (in fondo trovate il link), seguendo le procedure necessarie per entrare in un carcere. Prendetevi un paio di ore di tempo. La fermata del vaporetto è Giudecca-Palanca: può scaturire un’esperienza che vi rimarrà dentro.
Qualche perla dai Padiglioni nazionali. Spicca John Akomfrah
Ai Giardini spicca il regista di origine ghanese John Akomfrah nel Padiglione del Regno Unito, ai Giardini: moltissimi schermi, dal razzismo alla solitudine, dall’arte di Caravaggio e Artemisia Gentileschi all’acqua, dai migranti nel Mediterraneo alla Scozia, un lavoro di altissima poesia e maestria. Risalta Jeffrey Gibson nel padiglione statunitense, membro di un gruppo con origini Cherokee, rilegge la storia dei popoli nativi, queer e altro con efficaci e variopinte astrazioni geometriche. Nel padiglione olandese il collettivo Cercle d'Art des Travailleurs de Plantation Congolaise (Catpc), con l'artista Renzo Martens e il curatore Hicham Khalidi trasforma in luogo sacro una coltivazione nella Repubblica democratica del Congo. Volutamente inquietante il padiglione tedesco, mentre quello serbo riflette sul concetto di “Europa” con iconografie urbane e domestiche dell’Est Europa di decenni fa.
Quanto mai ammirevole ciò che ha fatto il Padiglione di Israele: l’artista Ruth Patir con le curatrici Mira Lapidot e Tamar Margalit lo apriranno solo quando “sarà raggiunto un accordo di cessate il fuoco e di rilascio degli ostaggi” tra lo Stato israeliano e Hamas. Dei soldati sorvegliano la postazione. Dal vetro esterno il video di Ruth Patir sembra avvincente e inquiestante, con strane figure in marcia: di più non si può dire. A proposito di guerra: sempre ai Giardini è inventivo e umanamente partecipe, e vale farci tappa, il video nel padiglione polacco dell’Open Group con ucraine e ucraini che mimano con la voce il sibilo e le esplosioni di bombe e missili russi scagliati sulle loro teste per uccidere e per volere del dittatore Putin.
All’Arsenale vale esplorare il Padiglione cinese. Buono l’esordio in Biennale del Benin, più che dignitoso quello del Senegal. Bene l’Irlanda. Ispirato a tradizioni figurative e moderniste lo spazio del Libano. Per mancanza di tempo se ne sono visti pochi altri.
Ricco di informazioni con oltre 670 pagine il volume sulla mostra “Stranieri ovunque – Foreigners Everywhere” e ha 258 pagine quello sui padiglioni, pubblicati insieme dalla Biennale di Venezia. Il catalogo per il padiglione della Santa Sede uscirà a fine luglio per Marsilio.
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oppure qui (tramite il sito Due qui / To Hear)
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