Marina Apollonio e Julie Mehretu, con i vostri dipinti ci fate perdere la testa
A Venezia la Collezione Guggenheim espone gli effetti ottici di Marina Apollonio, Palazzo Grassi i colori vibranti e pieni di segni di Julie Mehretu, statunitense di origine etiope. Due modi diversi e vitali di fare pittura sulle sponde del Canal Grande. Le foto

Su una sponda del Canal grande troviamo gli spiazzanti effetti ottici di Marina Apollonio, sulla sponda opposta incrociamo le grandi tele dai colori densi, fitte di segni, della etiope-statunitense Julie Mehretu. A Venezia la Biennale d’arte in corso fino al 24 novembre vede, nella mostra dell’ente ai Giardini e all’Arsenale “Stranieri ovunque” curata dal brasiliano Adriano Pedrosa, la metà delle presenze formato da artiste. Verrà, speriamo, il giorno in cui sarà del tutto superfluo prestare attenzione al genere di chi espone. Purtroppo ancora non è così ed è pertanto significativo che la città dei dogi abbia in contemporanea due rassegne su due artiste diversissime eppure accomunate da indipendenza, chiarezza nei propositi, forte autonomia personale lungo le vie dell’astrazione pittorica.
Alla Guggenheim e a Palazzo Grassi
Marina Apollonio è nata a Trieste nel 1949, Julie Mehretu ad Addis Abeba nel 1970. La prima ha una retrospettiva di un centinaio di opere esposte fino al 3 marzo nella mostra alla Collezione Peggy Guggenheim “Oltre il cerchio”. La seconda è cittadina statunitense, cresciuta in Etiopia fino alla fuga dalla dittatura con i genitori approdati negli Usa, espone a Palazzo Grassi della Collezione Pinault opere sue e di colleghe e colleghi con il titolo “Ensemble” fino al 6 gennaio. Curatrici sono Marianna Gelussi per la Apollonio, Caroline Bourgeois insieme alla pittrice stessa a Palazzo Grassi. Se andate nella sempre più costosa e affollata Venezia (conviene prenotare con largo anticipo), vedere le due mostre nelle sedi piuttosto vicine e affacciate sulle due sponde del Canal Grande può regalare qualche brivido emotivo e/o intellettuale. Ai due istituti va il merito di proporre artiste poco note al pubblico più vasto, a persone non esperte in materia.
Marina Apollonio: tu ci fai girar, tu ci fai girar (la testa)
Iniziamo con Marina Apollonio. La si può iscrivere nel movimento degli anni ’60 della “Optical Art”, quell’arte astratta e solitamente regolata da attente geometrie che fa della percezione ottica, dell’effetto visivo spiazzante, uno dei suoi precetti. La mostra ripercorre con ottima cura il suo cammino. Per lo più l’artista dipinge.
Cosa si vede nelle sale? Anzi tutto i dipinti rotanti: linee bianche e nere si alternano, formano cerchi concentrici o spirali in tondi che ruotano e l’effetto è inebriante, spiazzante: all’occhio quelle linee diventano superfici tridimensionali, sembrano provenire da altre dimensioni. Tu ci fai girar la testa, potrebbe cantare la veneziana Patty Pravo rievocando l’appassionante canzone “La bambola” quando, a un impenitente playboy, diceva “Tu mi fai girar come se fossi una bambola”. Quell’arte di movimento si chiama Arte cinetica.
Gente che calcola e ragiona
L’opera della Apollonio scaturisce da studi rigorosi, da calcoli, l’effetto travalica la bidimensionalità per diventare, in apparenza, uno spazio a tre dimensioni, spiazzante. I videogiochi e il computer, direte, potranno fare ben altro. Ebbene, la pittrice ci riusciva con strumenti semplici dove un principio fondante è quello di non esaltare l’artista come figura prometeica, quanto di essere parte di una società civile che, come usa dire ogni tanto, non ha bisogno di “eroi” bensì di gente che calcola e ragiona.
Contagiata dal virus dell'arte
Altre opere alla Guggenheim indagano l’effetto visivo attraverso cerchi concentrici su fondo rosso, con forme quadrate, manifestano la curiosità dell’artista verso la matematica. Incoraggiata e amica di artisti come Getulio Alviani, la Apollonio era figlia del critico d’arte Umbro Apollonio, direttore dell’Archivio storico della Biennale dal 1949 al 1972, che all’inizio non la incoraggiò a intraprendere la carriera artistica temendo difficoltà economiche. Marina con la famiglia venne a vivere proprio a Venezia a otto anni e qui raccolse stimoli, fu “contagiata dal virus dell’arte”, come ha avuto a dire. Un contagio dagli effetti benefici, viene da commentare.
A confronto con le sale della Collezione di Peggy
Dacché siete nel museo di Peggy Guggenheim, non vi perderete la summa delle Avanguardie del ‘900 nelle altre sale e, dunque, potrete approfittarne e visitare la sala con altri esponenti dell’arte cinetica e di quella programmata tra cui Victor Vasarely, Martha Boto, Manfredo Massironi e altri per un confronto con Marina Apollonio, peraltro presente nella Collezione stessa.

I colori costellati di segni di Julie Mehretu
Julie Mehretu fa tutt’altro discorso: dipinge astrazioni costellate di segni, di iscrizioni calligrafiche, certi passaggi diventano come dei vortici. La sua opera è irruente: rimanda all’Espressionismo astratto newyorkese, ai segni di Arshile Gorgy, a Cy Twombly, all’apparente caos cercato e voluto di Jackson Pollock. Tutto corretto, eppure non equipariamola a un’epigona: la pittrice ha il suo linguaggio e lo elabora in maniera personale e forte, non si accoda dietro qualche maestro.
Dalle cifre su forme astratte a piazza Tahir
Nei segni neri, rossi, su fondi dai cromatismi accesi possiamo anche cercare connessioni con la cultura aniconica (cioè senza figure) araba, il che può essere una suggestione nell’occhio di chi guarda. Sono invece riferimenti politici le architetture urbane che filtrano in mezzo ai colori e che richiamano luoghi di protesta civile come un centro delle “primavere arabe” quale è piazza Tahir del Cairo, piazza Tiananmen di Pechino, lo Zuccotti Park di New York dove manifestava il movimento “Occupy Wall Street”. Quei riferimenti sono come filtrati, traspaiono nel disegno nella superficie pittorica, non sono declamati, vanno piuttosto cercati.
Dalle proteste al totem del pachistano Bhabha
Gay dichiarata, Julie Mehretu fa filtrare il valore delle proteste senza didascalismi. La pittrice conosce anche il valore di un confronto di gruppo e infatti la mostra si intitola “Ensemble”, “insieme”: da qui lei e la curatrice hanno scelto sette compagne e compagni di viaggio a cui si sente affine o nomi a cui l’artista ha fatto riferimento. Il risultato è volutamente eterogeneo e diverso dalla sua opera. Le affinità però non stanno nel discorso formale. Guardiamo Huma Bhabha: pachistano emigrato negli Stati Uniti nel 1981, compone sculture inquietanti, strane, figure che sembrano totem, quasi mostri simili a noi.
Lo spettro di Hammons nella corte
Ancora più inquietante, anzi spettrale, è la scultura dell’afroamericano nato nel 1943 David Hammons: sospeso in un angolo della corte del bel Palazzo Grassi, appare un antico abito femminile appeso in aria, dalla gonna lunghissima. Chi era, quella donna? Potrebbe essere l’involucro di un fantasma delle tante donne nere uccise dai razzisti o dai proprietari di schiavi nel sud degli Stati Uniti, può essere “il sogno dimenticato” di una piena uguaglianza come recita il titolo dell’opera, il fatto è che Julie Mehretu sente evidentemente forti connessioni con questa figura se incontriamo questo fantasma entrando e poi uscendo da Palazzo Grassi e quindi la ritiene una storia ancora ben presente.
Per la mostra di Marina Apollonio alla Peggy Guggenheim Collection a Venezia clicca qui