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Quanti artisti pronti a lodare il fascismo quando il dittatore Mussolini comandava l'Italia

Dal colorato Depero al cupo Sironi, il Museo Mart di Rovereto prova a raccontare l’arte durante la dittatura fascista tra capolavori e omaggi al capo del regime. Emerge il carattere di tanti italiani: stare sul carro dei vincitori. L’idea e molte opere prestate sono di Sgarbi

Stefano Milianidi Stefano Miliani   

L’arte, non quella mestamente celebrativa, può convivere o perfino fiorire durante una dittatura come quella fascista? Un’arte di valore può sostenere un regime che ha fatto da modello e si è alleato al nazismo, che ha mandato al macello centinaia di migliaia di persone, che ha tenuto in povertà gran parte di quel “popolo” con cui Benito Mussolini si riempiva la bocca, che ha commesso atrocità in Etiopia? Solletica queste domande la corposa mostra “Arte e fascismo” fino al 29 settembre al Mart di Rovereto, acronimo per Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, a cura di Beatrice Avanzi e Daniela Ferrari e, come si premura di avvisare il museo, scaturita “da un’idea di Vittorio Sgarbi” che dell’istituto trentino è presidente in uno dei suoi tanti incarichi istituzionali passati o presenti.

Con oltre 400 opere tra dipinti, sculture, grafica, disegni e modelli architettonici, la rassegna nel museo progettato da Mario Botta pone anche un altro interrogativo: volontariamente o meno la mostra vuole fornire una stampella d’appoggio alla forsennata corsa del governo di destra-destra per conquistare una “egemonia culturale” di destra contro la tanto odiata “egemonia culturale” della sinistra (“egemonia” presunta negli ultimi decenni perché non si può ignorare il peso delle tv berlusconiane)? Le risposte non sono univoche, il responso non può esprimersi con l’accetta, un corollario però vale dirlo: spesso le opere artistiche migliori si generano in situazioni di difficoltà.

Il sospetto sul gesto del visitatore 

La rassegna ha molti capolavori, il livello medio è alto, che induca a farsi le domande suddette è buona cosa. D’altra parte neppure disturberà i troppi nostalgici del Duce. Vedendo un visitatore provare a sfiorare una delle teste di Mussolini rappresentate come un “profilo continuo” di Renato Bertelli – formalmente geniali – mentre viene prontamente ripreso da una custode fa insorgere il sospetto che il signore abbia cercato di accarezzare quella testa come omaggio, non per capirne la materia. Quale che sia la risposta, tra maestri autentici e cupi come Sironi, abbondano i ritratti celebrativi del dittatore, tronfio ai nostri occhi, eroico agli occhi di chi lo ha raffigurato come un moderno guerriero indomito, come un condottiero a cavallo (ancora Sironi o un sorprendente Prampolini), oppure in armatura pseudo-rinascimentale del triestino Cesare Sofianopulo.  

Scene inneggianti all'ideologia fascista e alle sue menzogne 

Proliferano le scene inneggianti al fascismo, alla sua ideologia, alle sue menzogne, che talvolta rendono la propaganda un idillio campestre o ne sostengono la politica agricola, confermando due caratteristiche degli italiani ampiamente discusse dagli storici. Un aspetto è che il fascismo godette di un consenso di massa vasto. Tanti artisti erano fascisti convinti. Valga un maestro dell’ “aerofuturismo” degli anni ’30 quale l’umbro Gerardo Dottori, presente con ritratto del dittatore del 1928 in abiti da politico elegante con farfallino,  mentre nel suo “Polittico della rivoluzione fascista” del 1934 il pittore colloca al vertice il duce mascelluto, guida suprema e, ai nostri occhi, ridicolo se non fosse malvagio.

Italiani sul carro del vincitore 

L’altro aspetto che salta agli occhi è di tipo antropologico, sul carattere di noi italiani: come usa dire siamo bravissimi a sistemarci sul carro del vincitore, a sostenere chi comanda, è un vizietto cui non sono immuni nemmeno artisti di vaglia. Come Fortunato Depero, multiforme, geniale, divertente (se potete andate anche alla bellissima Casa Depero sempre a Rovereto) che rende lieve, variopinta, allegra e pertanto finta una astrazione della “guerra-festa” del 1925 mentre diventa un incubo e una minaccia bellica un “Duce nel mondo” del 1934 con opprimenti macchinari in bianco-nero-grigio.

Veduta della mostra “Arte e fascismo”. In primo piano due busti di Renato Bertelli  “Testa di Mussolini (Profilo continuo)”. Foto Mart, Edoardo Meneghini, 2024

Le curatrici Beatrice Avanzi e Daniela Ferrari hanno disposto le opere attraverso capitoli nitidi iniziando con il “Ritorno all’ordine”, quell’idea di un’arte fondata sulle forme antiche, nitide, rinascimentali e pre-rinascimentali teorizzata e sostenuta nel primo dopoguerra da Margherita Sarfatti, critica d’arte di rilievo nonché amante di Mussolini. Magari converrà ricordare che pittori come Giorgio Morandi, in mostra con una natura morta e un autoritratto, possono partecipare al ritorno alla figurazione ma nulla, proprio nulla, può ricondurre la sua meditazione su noi umani attraverso forme scarne e antiretoriche a una qualsivoglia retorica legata al fascismo: la distanza è siderale. Un discorso analogo vale per Felice Casorati e altri.  

L’architettura razionalista 

Quanto mai opportuna la sezione sull’architettura razionalista, imprescindibile anzi. Prese piede tra gli architetti italiani, fu espressione notevole dell’architettura del nostro paese, il regime fece costruire edifici essenziali, funzionali, dalle linee nette, e la mostra comprende tra l’altro numerosi disegni di stazioni ferroviarie progettate da un architetto rigoroso quale è stato Angiolo Mazzoni. Così come hanno ampio rilievo fin dall’ingresso i manifesti, la grafica su riviste, da un lato di moderne sperimentazioni grafiche e dall’altro strumento di propaganda ampiamente utilizzato dal regime.

Adolfo Wildt: adoratore del Duce, sforacchiato dai partigiani

La penultima parola vale spenderla sullo scultore dalle deformazioni liberty Adolfo Wildt: il viso del “Duce” ante 1928 richiama le maschere mortuarie di uomini di potere rinascimentali; un suo enorme busto in bronzo su Benito del 1925-31 nelle sale iniziali vuole trasmettere la forza e il dominio dell’uomo al vertice del potere.
Chiude il percorso espositivo un “Dux” sempre di Wildt, stavolta del 1923, nella saletta sul crollo finale del fascismo. Quel busto è vicino alle satire spietate e divertentissime disegnate con coraggio dal 1940 al 1945 da Mino Maccari, vicino ai corpi maceri di Mario Mafai. Perché la scultura è lì se qui la cronologia è degli anni '40? Perché i partigiani la sforacchiarono a colpi di arma da fuoco poiché raffigurava l’odiato criminale di guerra e distruttore della società italiana. A corollario della mostra, Sgarbi firma la scritta finale per dire che l’arte è una cosa, il fascismo un’altra. Pare mettere le mani avanti contro critiche e attacchi.

L’ultima osservazione riguarda proprio Sgarbi. Oltre ad alcune opere presentate da una collezione privata di Predappio (i proprietari saranno fan di Benito?), salvo errori di conteggio quasi una quarantina di pezzi viene dalla Fondazione Cavallini Sgarbi, quindi di proprietà anche del presidente del Mart. Annotato che sono pezzi coerenti con il disegno espositivo, in una cronaca sulla rassegna di Rovereto è altrettanto doveroso annotarlo .

Clicca qui per il Mart di Rovereto

 

 

Stefano Milianidi Stefano Miliani   
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