Donatello? Verrocchio? L’incredibile storia del falsario che ingannò tutti (come è successo con i falsi Modigliani)

Al Mart di Rovereto una mostra di falsi che hanno ingannato musei rinomati e studiosi di rango. Dario Del Bufalo spiega perché tanti truccavano le carte e stima quante opere fasulle sono in istituti pubblici e privati nel mondo

Quel falsario era un maestro che a cinquanta anni suonati fece un "coming out" delle truffe compiute da lui e dai suoi complici-committenti. Una mostra adesso pone un interrogativo in grado di togliere il sonno a più storici e storiche dell'arte: un falsario può essere un artista? Parliamo qui di Alceo Dossena: nato a Cremona nel 1878 e morto a Roma nel  1937, con le sue sculture ha buggerato molti dei più blasonati musei del mondo. Lo scultore-artigiano inventò opere di maestri di primo piano quali Donatello, Giovanni Pisano, Andrea del Verrocchio, dell'antichità classica: il tratto saliente è che quell'uomo non ricreava o copiava gli antichi e, invece, inventava opere nello stile di grandi scultori. Adesso il Mart di Rovereto, museo di arte moderna e contemporanea che da tempo guarda anche all'antico, riserva a questa figura una vera retrospettiva corredata da pezzi di colleghi come si conviene alle rassegne sui maestri storici quali possono essere un Giotto o un Donatello, tanto per buttare lì qualche nome eclatante. La mostra è “Il falso nell’arte. Alceo Dossena e la scultura italiana del Rinascimento”, rimane aperta fino a domenica 9 gennaio 2022 e non è la prima su un falsario: ad esempio nel 2004 il Santa Maria della Scala di Siena dedicò una rassegna al senese Icilio Federico Ioni, presente pure lui al Mart con almeno un pezzo. Quel falsario senese era anche un burlone: inseriva nei dipinti un acronimo come piccola e misteriosa firma, “Paicap”, di cui uno uno studioso scoprì il significato alquanto irriverente, vale a dire “Per andare in culo al prossimo”.

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Se Dossena non possedeva il beffardo spirito toscano, quanto a maestria aveva pochi rivali. Dall’800 e la prima metà del ‘900 l’Italia era pronta a vendere i suoi capolavori e quando mancavano pullulava di artigiani che mettevano insieme opere posticce con il sostegno di qualche antiquario (tipo Stefano Bardini) e storici dell’arte compiacenti. Dossena era uno di quegli artigiani che, attesta ora il Mart, era molto più di un artigiano, che dovette venire allo scoperto nel 1928 per un processo clamoroso che lo mise alle strette. Il museo presieduto da Vittorio Sgarbi raduna quindi pezzi da collezioni pubbliche e private (molti dalla Fondazione Cavallini Sgarbi stessa) per includere la burla d’arte più divertente finora architettata: quella delle teste di Modì nel 1984 a Livorno con un pezzo “modiglianesco” che lo scultore Angelo Froglia aveva scolpito come atto di protesta, mentre Pietro Luridiana, Pier Francesco Ferrucci e Michele Ghelarducci gettarono per beffa in un fosso di Livorno delle teste, fecero gridare al miracolo amministratori pubblici e storici d’arte mentre Federico Zeri avvertì, poco ascoltato, che una di quelle sculture era “un paracarro”, e dimostrarono in tv di averle realizzate loro.

Pietro Luridiana, NoMod (da Amedeo Modigliani), agosto 1984. Collezione privata

La rassegna di Rovereto ha due curatori: uno è Marco Horak, autore del libro “Alceo Dossena. Fra mito e realtà: vita e opere di un genio”; l’altro è Dario Del Bufalo, studioso specializzato tra l’altro in marmi colorati e in antichità, romano, laureato in architettura, titolare di una rubrica spietata e fulminante sul mensile “Il Giornale dall’Arte” dal titolo “Bufale archeologiche”. La qual cosa autorizza a interpellarlo perché fonte perfetta per descrivere a Tiscali Cultura il falsario, le implicazioni di una storia dai tanti risvolti e il senso della mostra . 

Del Bufalo, perché organizzare un’antologica su un falsario come Alceo Dossena?

Quando il falsario, invece che compiere solo un atto illecito e fraudolento, finisce per creare una produzione talmente ampia e ben fatta di cose oltre l’artigianato, allora i suoi lavori diventano arte perché crea nuove forme, nuove interpretazioni: non puoi lasciarlo nell’oblio dell’ignoranza. Anzi, Dossena avrebbe dovuto essere già stato al centro di grandi mostre e ricerche. Lidia Azzolini (con il saggio Alceo Dossena: l’arte di un grande falsario, ndr) e Horak hanno scritto della sua vita ma senza andare a fondo del personaggio. Anche il bellissimo libro di David Sox “Unmasking the Forger: The Dossena Deception” è fondamentale ma questi studi non danno al pubblico una visione delle attitudini migliori del Dossena. Noi mostriamo più di 150 lavori, per la prima volta dai vari periodi. E abbiamo rintracciato anche le sue opere non firmate ante 1928, cioè prima del suo processo quando fu costretto al suo “coming out” dagli aguzzini che lo avevano sfruttato per anni.

In che modo lo hanno sfruttato?

Per una scultura, un bassorilievo, gli davano il corrispettivo odierno di due-tremila euro e lo vendevano a 200-mila 300mila negli Stati Uniti, in Inghilterra o in Germania.

Tra i pezzi antecedenti al 1928 cosa proponete?

Abbiamo opere da lui non firmate come due sculture arcaiche che il Cleveland Museum pagò 300mila dollari nel 1922 comparabili a milioni di euro oggi. Gli scholars più stimati e laureati a Yale e Oxford ci erano cascati.

Come spiega che ci cascavano tanti musei e studiosi?

Il falsario è spinto dal guadagno e penseresti che per lo storico dell’arte non è così, invece il discorso vale anche per lui. L’America voleva ardentemente arte italiana, soprattutto classica e rinascimentale. Dopo che la collezionista Isabella Stuart Gardner (fondatrice del museo a suo nome a Boston, ndr) e lo storico dell’arte Bernard Berenson avevano fatto i loro acquisti dalle collezioni di fine ‘800 e i primissimi del ‘900, le opere scarseggiavano. Gli americani volevano solo Raffaello, non volevano Caravaggio, volevano Pinturicchio, scultori come Rossellino o il Verrocchio, solo il primo e il maturo Rinascimento. Quando quest’arte ha cominciato a scarseggiare gli antiquari si dissero: non la troviamo più, allora fabbrichiamola. Così ci guadagnavano il falsario, l’antiquario, il mediatore statunitense, ci guadagnavano anche lo storico dell'arte e l’advisor (il consigliere o consulente, ndr) dei musei, e parliamo di studiosi come Berenson o Wilhelm von Bode. Cosa dicevano a se stessi quegli storici dell’arte? "Vuoi tanto un oggetto che ho trovato? Te lo faccio comprare a un prezzo giusto, mi paghi la parcella e se ho un piccolissimo sospetto lo deglutisco".

Erano pezzi lavorati e resi “antichi” con estrema maestria.

Era roba che ingannava. Il marmo era giusto, la scultura congrua, le rotture ben fatte, la patina era da maestro. Mi sono soffermato sulla capacità di Dossena di fare patine straordinarie in grado di ingannare l’occhio e lo stile. Ed era difficile scoprirlo. Finché non sono iniziati i sospetti. A quel punto si sono tutti svegliati e hanno cominciato a dire: “è vero, avevo un piccolo dubbio”. Però ci cascarono in tanti come tanti sono cascati sui “Modigliani” di Livorno. Erano sculture brutte,  Vittorio Sgarbi e Zeri lo dissero invitando a ributtarle nel fosso livornese. Invece di fronte a quei falsi Modì si urlò al miracolo del bello, alla meraviglia della scoperta. Se non c’è un precedente, se non c’è un atto che scopre le carte, sono tutti contenti di partecipare al banchetto: non intendo solo quello artistico, intendo anche il banchetto materiale dei guadagni.

Dossena non replicava sculture esistenti, le inventava.

La bravura sua e di altri come lui era entrare nel mood di un artista, nel suo mondo, nei panneggi, negli incarnati, nel movimento. Ed era gente che partiva dal basso. Dossena per venti anni ha fatto la gavetta a Cremona e a Milano facendo tombe, ovuli, cornici. È un po' come quando il Ghirlandaio (Firenze 1448-1494, ndr) rispondeva “disegna, disegna, disegna” a chi gli chiedeva come imparare per diventare un grande pittore. Non c’è altro metodo che partire dall’artigianato per arrivare all’arte. Non puoi non partire dalla materia, dal disegnare, dal lavoro duro e ripetitivo di un ornato o un disegno; prima devi immagazzinare nel tuo cervello i dati, le sfumature di chiaroscuro, le penetrazioni di trapano o scalpello. E dopo vent’anni di gran fatica potrai inventare.

Il falsario nato a Cremona era un talento naturale?

Dossena già a 12 anni fece un piccolo falso facendosi buttare fuori dall’artistico. Era una piccola Venere di marmo di 20 centimetri a cui spezzò le braccia. A Cremona città stavano scavando per il sistema fognario. Una sera lui sporcò la sua scultura e la infilò nella terra. Il giorno dopo gli operai trovarono la "Veneretta", chiamarono il sindaco, il capo della scuola, il soprintendente, e tutti si misero a dire che era stata trovata una Venere. Dopo Dossena tirò fuori le braccette staccate e provò che corrispondevano alle rotture. Rivelò la beffa. È terribile pensare che a quell’età crei un falso simile per prendere per i fondelli professori e autorità. A 40 anni Dossena pretenderà di dire che non sapeva che le sue sculture venivano vendute come pezzi antici. Invece le aveva fraudolentemente antichizzate, ne era consapevole.  

Sappiamo quanti suoi falsi si trovano in musei nel mondo e sono ritenuti opere autentiche?

Ci sono tre ordini di grado. Nei musei un 2-3%, nelle collezioni private si arriva a un buon 15%, nelle collezioni delle banche che hanno anche fondi di investimento in arte secondo miei osservatori nella scultura purtroppo si arriva anche a un 20-30%. Il Cleveland Museum nei primi anni non ci credeva: aveva battezzato dei pezzi come capolavori di arte arcaica greca, Dossena disse che erano suoi. Per qualche anno il museo non ritirò quelle sculture finché Dossena non  trovò nel suo laboratorio delle foto e un dito di una mano spezzata. Alla fine il museo fu costretto a ritirare quelle opere rlegandole per la vergogna nei depositi. Altri musei come il British e il Victoria and Albert di Londra furono più intelligenti e onesti ed esposero subito quelle opere come capolavori del XX secolo, i curatori provinciali del Cleveland no finché non arrivò un giovane Direttore ancora più farlocco il quale disse di non volere falsi nel museo e le mise all’asta.